Una metamorfosi possibile: da burattino di legno a bambino vero.

Ultimamente ho avuto la fortuna di partecipare ad alcuni corsi di formazione, che per me sono stati anche occasione per mettere ulteriormente a fuoco alcuni interrogativi che da tempo mi pongo. È, infatti, da qualche anno che mi domando come mai, generalmente, agli insegnanti sia proposta una formazione principalmente relativa ai contenuti da trasmettere e alle modalità tramite cui insegnare/far apprendere, trascurando per lo più (o lasciandola alla loro libertà di iniziativa) una formazione relativa alla conoscenza dei meccanismi con cui il nostro cervello apprende, relativa alle funzioni cognitive, alle possibilità di insegnare l’intelligenza, di potenziare abilità cognitive emergenti o poco esercitate, e in genere riguardante le questioni metacognitive.

Insomma, continuiamo per lo più a essere formati più sul COSA TRASMETTERE (= contenuti) e COME INSEGNARE (= metodologie e tecniche didattiche) piuttosto che sul COME FUNZIONA il cervello e relativamente ai meccanismi cognitivi e metacognitivi di ciascun individuo.

Così nel momento in cui incontriamo un alunno che si distanzia dall’idea di scolaro tipico e a sviluppo normotipico cui abbiamo in mente di riferire le nostre lezioni, avvertiamo la presenza di un “problema” e il sistema scuola non diventa più incisivo, risultando poco (o per nulla) significativo per quel ragazzo/bambino. La maggior parte delle volte si dirà che è l’alunno a non essere capace, a non essere fatto per la scuola, a rappresentare un problema.

Sono una docente di lettere per ponderata scelta personale e amo questo lavoro più di quello che avrei mai immaginato. Tuttavia ci sono degli aspetti del mondo istituzionale scuola che condivido in parte (o per nulla) e che vorrei almeno migliorassero: nutro la speranza che col tempo avvengano dei buoni cambiamenti, ed io voglio farne parte in modo attivo, per quel che posso.

Una domanda di quelle che mi pongo riguarda il motivo per cui all’interno del contesto scuola, pur alla luce di tutte le nuove informazioni e consapevolezze pedagogiche e cognitive che noi insegnanti possiamo acquisire, si senta, per esempio, ancora parlare di “alunni bravi “ e di altri meno “bravi” fino ad arrivare a quelli ritenuti, da alcuni colleghi, alunni “incapaci” per indole o per sfortunato corredo neuro-psico-biologico.

Inoltre mi chiedo: perché continuare ancora ad accettare sistemi di valutazione scolastica e di diagnostica specialistica che mettono in risalto mancanze e fragilità, piuttosto che utilizzare strumenti di misurazione del potenziale individuale, in grado di evidenziare potenzialità e aspetti cognitivi emergenti, che restituirebbero così una immagine di dignità personale e di modificabilità cognitiva per ciascun alunno?

Si sente sempre più frequentemente parlare di apprendimento significativo, di pedagogia positiva, di diritto all’errore, ecc ecc.. eppure è ancora abbastanza stratificata l’idea che l’insuccesso scolastico sia una questione di fallimento personale, di incapacità, di svogliatezza, nota di grande demerito del ragazzo, così come persiste il pensiero che chi non va bene a scuola sia un somaro, un buon a nulla.

La prof.ssa Lucangeli da tempo afferma a questo proposito che la scuola dovrebbe essere per i bambini, nel senso di essere al loro servizio, e non i bambini per la scuola, nel senso di doversi uniformare loro a degli standard che hanno in mente le persone che fanno scuola.

E allora, ispirata ancora una volta da un recente interesse di Samuele, ovvero quello per la storia di Pinocchio, mi sono chiesta se sia corretto parlare ancora oggi di “somari” a scuola o se, piuttosto, non sia il caso di prendere in carico quelle difficoltà, più o meno evidenti, di tipo personale, cognitivo, relazionale, motorio, ecc… per dire loro: “ti vedo”, “troviamo un modo insieme”, tu e io insegnante di classe.

Non so quanto la storia di Collodi, Pinocchio, abbia potuto influire sull’idea che si vive con difficoltà la scuola perché si è dei somari o dei non-capaci, o se piuttosto essa sia la rappresentazione di una mentalità dell’epoca.

Comunque sia, Samuele è molto attratto dalla storia di Pinocchio: credo che il legame Geppetto – Pinocchio e la trasformazione del burattino in un bambino vero lo abbiano profondamente colpito. Naturalmente la scena in cui Pinocchio diventa un asinello ha suscitato qualche perplessità in lui, che ha dedicato molto del suo tempo libero alla rielaborazione e interpretazione personale di queste scene. Così, dovendogli qualche spiegazione in merito, e volendo sfruttare l’occasione per ribadire la differenza tra fantasia e realtà, e il contatto tra realtà e significati nascosti, ho spiegato a Samuele che Pinocchio ci insegna che, quando non ci si impegna in nulla, quando si decide di sprecare il proprio tempo, energie e talenti, allora può persino capitare di perdere l’uso delle mani, dei piedi, della bocca, della parola che così poco abbiamo apprezzato.

Sembra quasi un contrappasso dantesco!

A parer mio l’istruzione è sicuramente un elemento fondamentale e caratterizzante la vita di ciascun individuo e reputo la scuola uno dei luoghi in cui essa potrebbe meglio realizzarsi; ma, quando un alunno non riesce con soddisfazione nel proprio percorso di apprendimento, le cause di quell’insuccesso, a parer mio, andrebbero ricercate davvero e non attribuite sbrigativamente a qualche colpa o responsabilità del bambino/ragazzo, non alla sua condizione genetica o difficoltà temporanea o permanente che sia: la scuola, gli insegnanti di classe, siamo tutti chiamati a essere al servizio dello sviluppo cognitivo e culturale di ogni persona che ci viene affidata in classe.

Difficile?

Difficilissimo!

Le ricerche scientifiche ci dicono che effettivamente gli alunni che vivono importanti situazioni di disagio sono proprio quelli che rischiano maggiormente il fallimento scolastico: a questo punto mi domando cosa un insegnante (signum in latino significa: lasciare un segno, dunque in-segnare = lasciare un segno significativo nella Vita dell’alunno) sia chiamato a fare per intervenire positivamente nella vita dei propri ragazzi, creando per loro “circoli virtuosi”.

La nostra esperienza di fruitori della scuola al momento può vantare diverse occasioni di crescita ma anche qualche aneddoto meno simpatico, come per esempio quando all’inizio di un certo anno scolastico ci è stato fatto presente, con molta gentilezza, che il bambino non colorava ancora dentro i bordi e che avremmo dovuto trovare una soluzione. Ebbene? L’insegnante di classe è rimasta lì ad attendere che la magia avvenisse per lo più spontaneamente; io, mamma, mi sono data da fare senza sperare in un miracolo: ho approfondito alcune questioni relative alla grafomotricità, ho messo in atto alcuni spunti della metodologia Feuerstein, e dal percorso PAPS orientato al Feuerstein, ho mantenuto più che riuscissi un atteggiamento di reale incoraggiamento rassicurante e di mediazione e, nel giro di un paio di un paio di mesi, Samuele ha ottenuto dei risultati importanti. Oggi non solo colorare dentro i bordi non è più una fatica ma è addirittura una delle sue attività preferite e di maggiore soddisfazione per lui! Racconto di questo pezzettino di strada nella sezione Pregrafismo del sito.

In questo caso allora si può dire che era Samuele a non essere adeguato al compito richiesto dalla scuola o la scuola non pronta a insegnare – cioè lasciare un segno significativo- lì dove le esigenze dell’alunno si discostavano leggermente dalle consuete conquiste autonome?

Da mamma insegnante ho avuto l’impressione che il “problema” percepito dalla maestra in quella occasione del colorare dentro i bordi fosse in realtà la differenza tra la risposta a quel compito scolastico attesa dall’insegnante e quella data dal bambino, che non era quella standardizzata e sperata. Inoltre, probabilmente, gli strumenti di cui disponeva l’insegnante non le permettevano di intervenire in senso metacognitivo, cioè in modo tale da poter sperare di modificare e insegnare una abilità non ancora acquisita. In questo senso il lavoro di coloritura proposto dalla scuola era effettivamente per lo più un’occasione per esercitare quella certa abilità se già posseduta dai bimbi, più che un’occasione per potenziarla consapevolmente o insegnarla.

Arrivo al dunque di questo discorso: da insegnante di lettere della scuola secondaria di primo grado ho avuto il privilegio in questi anni di lavorare con molti preadolescenti e di osservare che, quando i ragazzi sono lasciati a se stessi dagli adulti di riferimento e gli insegnanti non si preoccupano di loro e di potenziarne abilità emergenti o presenti, magari in una condizione di fragilità, allora, spesso questi alunni, guardandosi allo specchio, vedono prima l’etichetta che qualcuno ha appiccicato su di loro e poi, a volte, riescono a scorgere il loro essere tutto, intelligente e capace.

Quando, invece, i ragazzi cominciano a creder di potercela fare perché concretamente si offrono loro delle strategie di lavoro per trovare soluzioni e “arrivare più in alto”, allora avviene la magia, una tenerissima metamorfosi: bambini e ragazzi si trasformano nel loro meglio possibile, frequentano la scuola volentieri e con curiosità, vivendo più felici e soddisfatti, coltivando un positivo senso del sé.

Penso che sia compito della Scuola, quella fatta dalle persone, insegnare ad affrontare la Vita utilizzando il proprio pensiero originale e creativo, ricercando soluzioni e strategie concrete, imparando a imparare, a essere i protagonisti del proprio percorso di apprendimento, proprio come quando Pinocchio libera papà Geppetto dalla pancia della balena, riuscendo per la prima volta a intervenire nella sua storia, risolvendo una situazione per loro problematica.

Io credo in questo tipo di Scuola e negli insegnanti di classe che rendono davvero possibile la metamorfosi, accompagnando ogni alunno nel passaggio da burattino di legno a bambino vero!

Rachele Nicolucci
Autrice, fondatrice e coordinatrice di “Sindrome da Apprendimento”

Expert Teacher in organizzazione scolastica – Mi occupo di processi cognitivi dell’apprendere e metacognizione, con un approccio neuropedagogico e della pedagogia della mediazione Feuerstein.

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1 commento su “Una metamorfosi possibile: da burattino di legno a bambino vero.”

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