Genitorialità e… svecchiamento
Negli ultimi anni stiamo assistendo a una progressiva ridefinizione di paradigmi educativi e formativi. Questo lento processo di svecchiamento di idee, atteggiamenti e abitudini sta fortunatamente coinvolgendo anche la genitorialità: è innegabile infatti che oggi, rispetto un tempo, si viva la propria maternità o paternità non solo disponendo di strumenti e risorse differenti, ma anche secondo criteri di priorità diversi. E cioè i genitori di oggi siamo genitori diversi da quelli di 1000 anni fa, di 100, 50, 30 anni fa anche perché differenti sono le idee culturali in cui siamo immersi e i bisogni che percepiamo. D’altra parte pensa a quanto è realmente, e recentemente, cambiata l’idea (e i bisogni) di famiglia, di donna, di lavoro, di scuola, di maestro, di educazione, di paternità… di infanzia.
Di tutto questo stiamo nutrendo le nostre giornate e tramite anche tutto questo stiamo dando forma a noi stessi: diamo forma a noi stessi, come adulti di riferimento. E così cresciamo figli e studenti.
Se vuoi arrivare al nocciolo della questione, vai direttamente all’ultimo paragrafo.
Altrimenti mettiti comodo per seguire il mio discorso passo dopo passo, comprendendo la faccenda da un nuovo punto di vista.
Se oggi sei genitore, ti sarà forse capitato di notare che, quasi come dentro a dinamiche di automatismo, in alcune circostanze stai replicando atteggiamenti e/o approcci che sono (stati) anche dei tuoi genitori e che loro hanno rivolto quindi pure a te. Magari, diventato consapevole e informandoti su cosa sia l’educazione gentile, hai pure deciso di “lavorare” su questi automatismi perché non condividi alcuni metodi e approcci tradizionali e vuoi educare i tuoi figli in modo più empatico e rispettoso per dare loro più occasioni di successo.
In ogni caso – e per fortuna – oggi si sente un gran parlare di educazione gentile e rispettosa, di educazione a lungo termine. Un gruppo sempre più nutrito di adulti sta decidendo, consapevolmente e intenzionalmente, di abbandonare la pedagogia nera, quella con cui siamo cresciuti più o meno tutti fino agli anni ’80 – ’90, quella fatta di punizioni, castighi, ricatti affettivi ed emotivi, sistemi di controllo, quella che prevedeva che i bambini dovessero non creare problemi e semplicemente obbedire e tacere (il concetto di bravo bambino , di yes man, quanto è ancora radicato, mannaggia!!!!); quella che guardava ai bambini come a dei bambolotti da educare con le buone o con le cattive.
E’ così realmente grande e importante questo cambiamento che in ambito educativo e sotto gli occhi di tutti risultano sempre più numerosi i gruppi social dedicati all’educazione gentile, così come i professionisti che ne parlano, ma anche i podcast e i blog che scelgono questo focus specifico.
Educazione gentile o gentilezza?
Per fare “educazione gentile” non basta essere gentili.
Serve empatia (che, ricordo, ha una discriminante cognitiva molto forte), serve ragionamento, creatività. Non basta la gentilezza. La gentilezza (quella autentica, non invischiata di ipocrisia) non garantisce il fare educazione gentile. Fermati un attimo a riflettere: non ci sono forse forme di controllo, ricatti e violenze che possono essere mascherate da una certa forma di gentilezza?
L’educazione gentile è intrisa di empatia, rispetto, incarna la pedagogia dell’incoraggiamento, quella che porta il Bambino, qualsiasi bambino, allo sviluppo di autonomie: l’educazione gentile mette al centro la persona (e non solo il bambino).
Per questo l’educazione gentile, a lungo termine, chiede all’adulto, prima di tutto, di fare un gran lavoro su sé stesso: è necessario prima prendere coscienza di alcuni meccanismi, che forse altri adulti hanno esercitato nei nostri confronti, quando eravamo bambini, pur in assenza di evidenze violenze, di ricatti o di sistemi di controllo; per poi essere liberi di scegliere altro per i propri figli. Anche quando vivono una condizione di disabilità cognitiva. Perché alla educazione gentile hanno diritto anche i bambini che fanno più fatica cognitivamente (per approfondire leggi qua). L’educazione gentile dovrebbe essere, a mio parere, lo strumento per eccellenza tramite cui dare loro dignità e sostegno nella quotidianità, scolastica o casalinga che sia: non può esserci approccio di successo (capace cioè di accompagnare il bambino al migliore degli sviluppi a lui possibili) educativo, riabilitativo, di potenziamento o di istruzione che non metta al centro la persona del bambino e che lo faccia in modo empatico e rispettoso.
L’educazione gentile è in dialogo con la responsabilità educativa?
Sono assolutamente favorevole a questo orientamento psicopedagogico che sta caratterizzando questo nostro tempo socio-culturale e quindi anche l’esperienza di genitorialità di molti di noi. Tanto più perché dietro questo approccio ci sono alcuni risultati delle neuroscienze, della neurodidattica e della neuropedagogia. L’educazione gentile non è una moda di passaggio: ma uno stile di vita, un modo di approcciarsi alla vita con i figli e studenti (e non solo i figli). Teniamo conto che, guardando ad alcune informazioni date dalle neuroscienze, possiamo davvero comprendere che i frutti nati da questo tipo di interazione genitore – figlio sono buoni, di successo presente e futuro, sia per l’adulto, sia per il minore in questione, che per la relazione tra i due.
C’è solo un punto di fragilità in tutto questo: ma quando un bambino dice di no, quando un bambino rifiuta una proposta, quando un bambino non collabora, cosa si fa? Questo è un aspetto che, dal mio punto di vista, ha messo in luce aspetti di fragilità di noi adulti, non certo dei bambini. E cioè siamo noi adulti che dobbiamo ancora comprendere come risolvere questo affanno, non di certo i nostri figli e/o studenti.
Ci sono adulti che di fronte a un no del piccolo non sanno più cosa e come fare: è realmente difficile vivere in modo equilibrato questo tipo di situazioni e questo è il punto su cui ci soffermiamo noi oggi. Ci chiediamo quindi: l’educazione gentile, quella che ripudia sistemi di controllo – ricatti – violenze – premi/punizioni ecc, come ben si armonizza con le situazioni in cui il bambino dice di no ma sarebbe opportuno un suo sì?
In questi anni ho visto adulti, genitori, insegnanti, educatori e professionisti scegliere di fronte a un no del bambino principalmente due vie: quella del controllo/ricatto e quella dell’abbandono, e cioè “fai come vuoi”.
E no! Un bambino non può essere lasciato solo nel fare una cosa a cui noi avremmo detto ragionevolmente no. Ragionevolmente: e cioè sappiamo già evitare di dire “no” inutili o che, in fondo, non hanno motivo di esistere. Non è vero? Questo vale naturalmente anche per i bambini che fanno più fatica cognitivamente.
Quali sono dunque i NO che vale la pena davvero dire a un figlio/studente?
Sinteticamente, quelli che riguardano situazioni o fatti in cui:
- metterebbe in pericolo la propria salute, benessere psicologico – emotivo, e sicurezza fisica;
- metterebbe in pericolo la salute, benessere psicologico – emotivo e sicurezza di altre persone;
- metterebbe in pericolo oggetti / mobili / immobili importanti e utili: beni materiali.
Se la nostra risposta di rifiuto (a una sua richiesta) o la nostra stessa indicazioni è tale al fine di proteggerlo da un reale pericolo o al fine di evitare che lui si esponga a un concreto rischio di pericolo per sé, per altri esseri viventi o per oggetti importanti, perché mai dovremmo a un certo punto “cedere” e lasciarlo addirittura da solo nel fare questa cosa rispetto alla quale non siamo d’accordo e che ritenuamo realmente pericolosa?
Ci sono situazioni in cui è sicuramente possibile e bene accogliere le loro richieste, anche se per qualche motivo personale dell’adulto (diverso dai tre elencati precedentemente), per esempio per stanchezza, per mancanza di flessibilità mentale o per paura del giudizio altrui, vorremmo dire loro di no. Di questo specifico focus ho già parlato nell’articolo I bambini possono dire di no agli adulti? Ci sono quindi situazioni in cui è ragionevole ritrattare il nostro “no”, forse inopportuno e dettato solo da una nostra convenienza.
MA OGGI CONSIDERIAMO IL CASO IN CUI SIA NECESSARIO MANTENERE, in modo equilibrato e mediato, IL NOSTRO NO ADULTO O LE VOLTE IN CUI I BAMBINI NON VORREBBERO FARE DELLE COSE CHE IN UN CERTO SENSO “DEVONO”: quindi a noi la forza creatrice di mantenere la nostra linea di pensiero, pur in una cornice di rispetto e empatia verso il nostro Bambino / studenti.
E’ fondamentale non perdere di vista, proprio in una cornice di approccio gentile, e cioè empatico e rispettoso, che il discernimento di cura è solo dell’adulto. Ovvero: è l’adulto che deve compiere lo sforzo cognitivo di comprendere, e poi verbalizzare (o comunque comunicare in modo adeguato) quale sia la scelta giusta per quella specifica situazione e proprio per quel bambino.
Questa capacità di comprensione della realtà, che comporta capacità di osservazione, raccolta di dati, analisi, valutazione, confronto, capacità di formulare ipotesi, e molto altro, non possiamo chiederla e pretenderla dai nostri figli/studenti, semplicemente perché il loro cervello non è ancora maturo per compiere questi passaggi cognitivi, tanto più in una situazione “calda”, emotivamente coinvolgente, o di novità.
Inoltre teniamo conto che spesso non hanno ancora sufficientemente esperienza per poter valutare elementi possibili, per ipotizzare / dedurre / indurre, sulla base di fatti realmente vissuti e tracciati nella loro memoria.

In questo senso la responsabilità di cura educativa è solo dell’adulto.
Non ci sono alternative.
Non ci sono altre possibilità.
Non sta al bambino scegliere cosa si può o cosa non si può fare in situazioni che potrebbero comportare il rischio (fisico, psicologico, emotivo, ecc ecc) di pericolo per sé stesso, per altri o per beni materiali. Almeno fintanto che non maturano in lui capacità di discernimento.
Un bambino al quale viene risposto “fai quello che vuoi”, “fai come vuoi” è un bambino (o adulto) lasciato solo.
E l’adulto che usa queste espressioni esprime per lo più la sua fatica a assumersi le proprie responsabilità di figura educante, figura di riferimento, di agevolatore di aiuto.
L’adulto di riferimento, o che tale vuole essere percepito, deve sviluppare la sua capacità di organizzare confini: attraverso l’educazione diamo forma al cervello dei nostri figli e studenti.
Attraverso le nostre scelte educative, che sono scelte di cura e scelte che si esplicano nel rispetto del bambino, nel dialogo con lui, e nel coinvolgimento cognitivo del bambino stesso, permettiamo l’apprendimento di autonomie e lo sviluppo cerebrale dei nostri piccoli.
Certo ogni tanto può capitare all’adulto di sbagliare, ma non può essere la regola, non può essere cioè lo stile di relazione e di interazione che l’adulto assume verso il proprio piccolo. E’ nella nostra capacità cognitiva e emotiva di comprendere il nostro sbaglio e di modificarci rispetto a esso che possiamo essere davvero adulti di riferimento.
Diciamo di sì ai nostri figli / studenti ogni volta che è realmente possibile, quando cioè non si caccerebbero in situazioni di pericolo per sé stessi o per altri (vedi l’elenco precedente); diciamo loro di sì anche se questo può comportare per noi adulti l’uscire dalla nostra zona di comfort, abitudini e consuetudini.
Quando è necessario, veramente necessario (per i tre motivi prima elencati), diciamo loro di no, accompagniamoli con responsabilità e coraggio.
Sintesi e focalizzazione degli aspetti di cui tenere conto:
- DICO DI NO, QUANDO NECESSARIO COME AZIONE DI CURA.
- RIFLETTO SULLE MOTIVAZIONI DEL MIO NO CON IL MIO BAMBINO: le mie motivazioni non tengono conto solo di me, ma soprattutto di te. Perché è al Bambino che dico di no.
- SPENDO TEMPO A DIALOGARE CON IL BAMBINO COME AZIONE DI CURA DELLA NOSTRA RELAZIONE. Quanto tempo dedichi quotidianamente a questo?
- COINVOLGO IL BAMBINO / STUDENTE IN QUESTO PROCESSO DECISIONALE, SENZA DARE A LUI IL PESO DEL MIO NO. Quante energie dedichi a mediare tra il tuo bambino / studente e lo stimolo che l’ambiente gli ha offerto e che tu ritieni realmente rischioso?
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