Come parlare della morte e malattia ai bambini. Qualche spunto.

Si può parlare della morte e malattia ai bambini? Noi lo abbiamo dovuto fare, usando parole semplici ma aderenti alla verità della Vita.

Condivido allora qualche attenzione e strategia che per noi si sono rivelate utili per parlare ai bambini della malattia e morte della nostra dolce cagnolina Lilli.

Lilli, settembre 2011. Recuperata da poco e all’opera insieme presso un corso per educatori cinofili ”Gentle Team”

L’esperienza di cui ti racconto oggi riguarda Lilli: una cagnolina meticcia, una trovatella di 11 anni, dei cui occhi era impossibile non innamorarsi. Ho deciso di condividere anche questa esperienza per due motivi principalmente. Il primo motivo è che la morte e la malattia sono, ahimè, argomenti e fatti che prima o poi ci si trova a dover affrontare. Il secondo motivo è legato alla necessità, sempre più attuale, di saper essere adulti di riferimento: autentici, coerenti e responsabili.

Morte e malattia sono elementi naturali.

Quello della morte è un aspetto a cui nessun essere vivente può sottrarsi, purtroppo. Forse a volte ce lo dimentichiamo e viviamo un delirio di onnipotenza, ma la verità pare un’altra.

Ai bambini abbiamo parlato della morte e della malattia in questi termini: quando, in settembre 2021, ci è stato detto che Lilli era piena di metastasi e che non aveva possibilità di guarigione, abbiamo presentato la situazione come un evolversi naturale di qualcosa che non potevamo modificare, ragionando sul ciclo della vita, che riguarda tutti.

E’ stato relativamente spontaneo, e di grande supporto, dire ai bambini (7 e 3 anni), che succede proprio così a tutti gli esseri viventi: nascono, crescono, si riproducono, (possono ammalarsi) e muoiono. La verità, che era palesemente evidente e che zampettava per casa, era che Lilli stava molto male e che si stava lentamente spegnendo: se anche non avessimo voluto dire la verità, sarebbe stato difficile dare spazio a bugie o a mezze verità.

Attivato il cervello razionale e il cervello emotivo. Ci prendiamo cura della parte spirituale.

E’ stato importante per noi vivere questa esperienza in modo completo, autentico e con ogni parte di noi. Da un lato, infatti, abbiamo fatto appello al nostro essere razionali, alla necessità di ricevere spiegazioni e quindi all’opportunità di comprendere. Così i bambini hanno potuto trovare risposta ad alcune loro domande: perché Lilli si è ammalata? Cosa vuol dire morire? E dove si va dopo? Ci dimenticheremo di lei? Oggi le fa male la pancia? E dopo le farà male ancora? Ma allora muore anche Maya?

Dall’altro lato, abbiamo vissuto questa (spiacevolissima) esperienza con ogni emozione e sentimento necessario: la rabbia, la paura, il dispiacere, la nostalgia, la gratitudine, il sollievo per la fine di una situazione di malattia, la tristezza, l’amore. Ci hanno aiutato alcuni albi illustrati e racconti per bambini, a capire che l’Amore vive per sempre e che è naturale fare esperienza di morte o di malattia, per quanto lo si vorrebbe evitare.

Ma c’è stato di più: abbiamo parlato di Spirito, di Anima. Non entro nello specifico, ma credo che sopratutto Samuele abbia compreso che Lilli, pur non essendo più fisicamente in mezzo a noi, e pur essendo il suo corpicino sotto terra, sia per certi versi ancora parte di noi, nei ricordi di lei e con lei che custodiamo dentro di noi, ma anche nelle forze di questo Universo. Così abbiamo anche imparato a pregare per una Creatura che lascia questo mondo terreno per raggiungere un’altra dimensione.

Cosa abbiamo fatto concretamente?

Quello che abbiamo fatto ogni volta è stato cercare di aiutare i bambini a osservare attentamente Lilli: i suoi comportamenti, i suoi cambiamenti anche fisici. Così è stato possibile avere un riscontro reale, di comprendere, per esempio, che era necessario aiutarla, anche a costo di intervenire in modo importante, asportando un occhietto. Questa esperienza, vissuta abbastanza serenamente, credo sia rimasta impressa in Samuele, che tuttora ricorda Lilli con un occhio chiuso. Per spiegare questo intervento e nel tentativo di trovare parole adeguate e di delineare un quadro a lui comprensibile, ci siamo detti, osservando bene il cane, che l’occhio aveva smesso di funzionare e che era molto gonfio e stanco, che Lilli non mangiava più dal dolore. La soluzione possibile era asportare l’occhio, chiuderlo per farlo riposare. Abbiamo detto la verità, elaborata con un lessico semplice e dando ai bambini un riscontro concreto e emotivo a loro accessibile.

E’ vero che l’evidenza dei sintomi ci ha reso più facile il poter parlare ai bambini della morte e della malattia, che abbiamo potuto osservare, seguire, comprendere nella sua parte più manifesta. Senza però che queste spiegazioni razionali potessero togliere il dolore per quello che stava capitando e la sua mancanza.

Possiamo, dobbiamo, vogliamo dire tutto ai bambini?

Arriviamo alla seconda motivazione che mi ha spinta a scrivere di questa esperienza. In questi giorni ho letto numerosi post Instagram e altri interventi di adulti che sostengono l’importanza di spiegare ai bambini, in nome della verità, della guerra che oggi sentiamo più vicina.

E’ importante non avere filtri con i bambini? Certo che no!

Ritengo sia importante dire loro la Verità, ovviamente nei termini adeguati, quando essa riguarda la loro quotidianità e quando la comprensione del fatto può costituire una facilitazione, un vantaggio, per la loro condizione di vita.

Parlare ai bambini della morte e della malattia di Lilli ha rappresentato un modo per vivere più sereni, elaborando i fatti, trovando spiegazioni, strategie di risposta, comprendendo un po’ di più questa caratteristica naturale degli esseri viventi.

Ma argomentare a bambini così piccoli la situazione di guerra odierna, di cui fortunatamente al momento non stiamo facendo esperienza diretta, e speriamo così sia sempre, è cosa ben diversa. Dobbiamo infatti considerare che i bambini piccoli per età o che fanno più fatica cognitivamente potrebbero non essere maturi per elaborare le informazioni ricevute, non relative a fatti per loro concreti e riscontrabili nella quotidianità. Chiederemmo loro lo sforzo di dover fare appello a categorie di significato, abilità e emozioni distanti o che i bambini potrebbero non gestire in modo adeguato.

Io e Alessandro non parliamo della guerra ai nostri bambini

Io e Alessandro abbiamo deciso perciò di non parlare ai nostri figli di questi fatti di attualità, così come di altri che non sono di loro competenza e responsabilità: infatti la conoscenza di questi stessi fatti (esempio la guerra) non rappresenta per Samuele e Gabriele un vantaggio, un miglioramento della condizione del loro vivere quotidiano e odierno. Anzi… li preoccuperebbe e spaventerebbe senza possibilità di soluzione o di comprensione reale.

A questo proposito cito il pedagogista Novara che recentemente ha così detto:

La guerra è un fenomeno molto lontano sul piano cognitivo dal mondo dei bambini. Ci sono contenuti sostenibili su piano neurocognitivo e neuroemotivo, altri non sostenibili. In linea di massima, direi che almeno fino a 7-8 anni sia meglio proteggere: a quell’età, il bambino non ha il senso della distanza. Ricordo che, quando cadevano missili su Bagdad, i più piccoli domandavano quando sarebbero caduti sulle nostre teste. Dai 9-10 anni si può iniziare a parlarne, tenendo lontane le immagini di distruzione e di morte. Non abbiamo nessun vantaggio nel creare il panico nei nostri bambini. Anche nel caso della pandemia, abbiamo avuto prova che se l’ambiente è ansiogeno, i bambini diventano ansiosi, possono fare confusione, pensare di essere in pericolo. E quando un bambino pensa di essere in pericolo, dal punto di vista emotivo si attivano corti circuiti non indifferenti, che possono impedire di vivere normalmente: entra in uno stato di contrazione emotiva, che produce anche uno stato di contrazione psicologica e cognitiva. Potrebbe iniziare a dormire male e avere attacchi di aggressività. Non dimentichiamo che lo stesso bambino è già molto provato dalla pandemia, che lo ha sottoposto alle più gravi restrizioni, tuttora in vigore. Se ora aggiungiamo la guerra in Ucraina, raccoglieremo i nostri figli e nipoti col cucchiaino! I bambini hanno bisogno di leggerezza. A me sembra che, in generale, abbiamo perso, come società adulta, la cognizione di quale sia la percezione della vita e della realtà di un bambino. Tendiamo troppo e troppo male a pensare che i bambini siano come gli adulti, ma ovviamente non è così: dovremmo avere molto più rispetto. 

Chiara Ludovisi, La guerra raccontata ai bambini. Novara: “Non paragoniamola ai litigi”, 24 febbraio 2022

I bambino sono protagonisti del loro vivere, non responsabili.

Può sembrare una distinzione banale ma non lo è: un adulto è protagonista e responsabile del proprio vivere. O così dovrebbe essere. Un bambino non dovrebbe mai avere la responsabilità del peso di scelte importanti, che necessitano di un agire mentale più adulto.

Così, nell’affrontare la malattia e morte di Lilli, la responsabilità di scegliere le cure e gli interventi suggeriti dal veterinario è sempre stata mia e di Alessandro. Non la loro. Li abbiamo però coinvolti per comprendere meglio la realtà circostante, e vivere con serenità la nostra quotidianità. Questo ha significato perciò anche venire con noi dal veterinario, se lo volevano, oppure partecipare alla somministrazione di farmaci, osservare il papà che tuttora fa le punture di insulina a Maya (l’altra cagnolina), preoccuparsi dei pasti di Lilli e della pulizia della sua cuccia, ecc.

Partecipare e scegliere sono azioni diverse, spesso faticose anche per l’adulto ma che lui sa (o può imparare a ) mettere in sequenza in modo funzionale e che così spetta a lui. Ma non il bambino.

Parlare ai bambini della morte e della malattia della nostra cagnolina è stato faticoso perché l’esperienza in sé è stata emotivamente intensa. Ma allo stesso tempo è stato necessario e importante per aumentare la consapevolezza dei bambini di sé stessi e del mondo circostante.

Expert Teacher, caregiver, sibling
Mi occupo di apprendimento, dei processi cognitivi dell’apprendere e di metacognizione, a servizio soprattutto di chi non si basta da solo cognitivamente.
Lo faccio in ottica neuropedagogica e della pedagogia della mediazione del dott. Feuerstein.

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