Contenere

Sesto articolo della Rubrica Apprendere dai Bambini

Il verbo che quest’oggi ci guiderà nelle nostra riflessione è contenere; nei primi mesi da mamma questa parola mi ha spesso riportata con la mente al concetto di Holding di cui parla D. Winnicott (1970)  pediatra e psicoanalista, quando descrive il processo di sviluppo emotivo del bambino.

L’holding  (che deriva  dal verbo to hold=tenere) descrive una funzione materna necessaria allo sviluppo psichico del bambino; il contenimento, il tenere insieme non viene inteso  solo da un punto di vista emotivo ,ma anche prettamente fisico, come il tenere in braccio, il sostenere.

La coppia madre-figlio costituisce un sistema unico, tanto che le cure materne e il bambino non possono essere considerati disgiunti e il bambino si trova in una condizione di dipendenza assoluta. In un certo senso si mette in atto una sorta di  “isolamento protettivo”, fondamentale al fine di permettere al bambino di crescere e rafforzarsi secondo i suoi personali tempi e di affrontare la scoperta del mondo esterno con gradualità. La capacità della madre di tenere in braccio il bambino,  la sua capacità di “manipolarlo” e “maneggiarlo”, consentono al bambino l’elaborazione delle esperienze sensoriali e motorie che andranno a costruire la propria identità.  L’esperienza con la mia bambina mi ha fatto comprendere in maniera molto più concreta l’importanza di questo contatto anche fisico, la pelle come il primo confine tra il “me” e “non-me”, tra esterno e interno. 

Dottoressa Annamaria Guarnera


Si potrebbero dire davvero molte cose sul contenere.
Tra le tante, quella che mi sembra in questo momento più importante per me, essenziale direi, e che sto imparando direttamente dai miei bambini è relativa al contenere me stessa come genitore.
Contenere me stessa, mamma di due bambini, uno dei quali con una condizione genetica inattesa: la trisomia 21.
Ma la stessa esperienza, sebbene in termini diversi, la vivo anche con l’altro figlio, Gabriele, perché è propria di ogni genitore, e anche di ogni figura di aiuto.
Prima di tutto allora contenere me stessa come mamma che sta maturando una idea più equilibrata di accettazione di quel “pentolino di Antonino”, ovvero di quel cromosoma 21 in più.

Accettazione che non può essere esasperata né nei termini di rassegnazione e di rinuncia né nei tentativi di “normalizzazione” del bambino stesso.
Se da un lato cioè non posso arrendermi alle fatiche del vivere quotidiano che quel pentolino comporta, dall’altro lato devo tenere in mente che la causa di quelle specifiche fatiche che voglio combattere e superare è proprio lo stesso pentolino.

Perché imparare a contenermi come madre?

Fino a qualche tempo fa era decisamente comune “rassegnarsi” a quel cromosoma 21 in più, giustificando le fatiche conseguenti come espressione del “difetto” genetico, di fronte al quale probabilmente ci si sentiva completamente inermi.
E infatti questa rassegnazione poteva tradursi anche nel senso di impotenza dei genitori e nella mancanza di attese da parte dell’ambiente tutto.


Oggi, invece, per fortuna, molte figure di aiuto, e in primis sempre più famiglie, non vivono più rassegnate di fronte alla presenza del pentolino; comprendo che finalmente il desiderio di aiutare i propri figli stia maturando diffusamente in un agire concreto della quotidianità, e che sempre più famiglie stiamo sperimentando modalità per contenerlo, tenerlo con sé ma a bada, quel cromosoma, senza lasciare che esso dia fastidio più di tanto.
E questo, dal mio punto di vista, è certamente lodevole. Le neuroscienze oggi confermano che l’ambiente (genitori dunque prima di tutti) ha un ruolo fondamentale nella crescita di un figlio.

Non è romanticismo, ma scienza: l’ambiente interagisce con il nostro organismo, giocando un ruolo cruciale in particolare nella formazione e maturazione dei nostri circuiti neuronali.
Non si può sfuggire al proprio DNA: non si può guarire da un disturbo geneticamente determinato […]. Ma, nei disturbi del neurosviluppo, si possono attenuarne gli effetti, modificando in meglio le funzioni che quei disturbi compromettono.

D. Lucangeli

A volte però, mi sembra si corra il rischio di esasperare anche questa modalità di approccio combattivo alle fragilità e vulnerabilità del figlio (e non solo in riferimento alla trisomia): c’è anche chi sarebbe disposto a tutto pur di non vedere più il pentolino, quasi a volerlo azzerare, nascondere, a voler cioè “normalizzare” le vulnerabilità e prestazioni del proprio bambino.

È una faccenda molto delicata questa del contenere se stessi come genitori e non riguarda solo le vulnerabilità scatenate dalla diagnosi di trisomia 21. È una faccenda con cui tutti i genitori dobbiamo far i conti, soprattutto se cresciuti con una cultura pedagogica abbastanza tradizionale, quella secondo la quale i figli sono “bravi”, e quindi di valore e/o meritevoli di stima e affetto, tanto più capaci di obbedire e/o prestazionali o di successo.

Mi pare sia diffusa la necessità di un contenimento genitoriale, di maturare una responsabilità equilibrata che sappia dare il giusto peso alle risorse così come alle fragilità di ciascun figlio, ai sogni e desideri così come alle energie e impegno richiesti per realizzarli. Ecco in questa ottica di necessità diffusa di uno spazio di contenimento genitoriale sono stati allora strutturati gli S.O.S. 21 di Sindrome da Apprendimento, nati proprio dall’avere individuato in me stessa, prima di tutto, la necessità di un contenimento in qualità di madre.
Il percorso S.O.S. 21 come luogo di contenimento per sostenere e tenere a mente, in modo consapevole, la genitorialità che oggi si occupa di quel pentolino: perché se da un lato il rischio è quello di non sapere come essere realmente di aiuto, dall’altro è quello di non tenere realmente conto che quel pentolino esiste per davvero e che esso mi chiede di dialogare con lui a beneficio della formazione di mio figlio.

Allora ecco l’equilibrio difficile che sto tentando di maturare: è un equilibrio fatto da un lato dalla consapevolezza che, sebbene ci sia realmente quel “pentolino”, non posso rassegnarmi, non posso lasciarlo a se stesso, non posso rinunciare a essere concretamente ambiente modificante. Le neuroscienze ci stanno dicendo che l’ambiente, quindi io, mamma insegnante, non posso darmi per vinta: devo essere realmente di aiuto. E lo faccio condividendo l’idea di aiuto che ha la dottoressa Lucangeli:

In generale, significa fornire loro strategie adeguate affinché possano modificare in meglio le funzioni che le vulnerabilità e i disturbi del neurosviluppo e/o dell’apprendimento compromettono

Lucangeli, A mente accesa

E dall’altro lato il mio equilibrio è dato dalla consapevolezza che quel pentolino è reale, è un dato concreto e vero che non posso e non devo ignorare.
E questo lo devo tenere presente non per limitare il mio desiderio di aiuto, ma perché il mio agire resti in una dimensione di autentico e rispettoso aiuto alla crescita e formazione di mio figlio e nella relazione rispettosa che io voglio nutrire con lui.

E allora se questo, nella concretezza delle giornate, significa sostare nei suoi tempi, osservare le sue potenzialità, lasciarmi disorientare e rimodellare (nei miei pensieri, atteggiamenti e nel cuore) dalle sue traiettorie di sviluppo (che non sono né le mie né quelle che avrei immaginato per il mio bambino ideale, quello che vive cioè nelle idee utopiche), riuscire a accogliere le sue emozioni, preoccuparmi oggi per agire a beneficio dell’uomo che domani sarà, ben venga il fiorire in noi di queste rose di pazienza, creatività, coraggio e vitalità: sono proprio i fiori di crescita e di ‘ribellezza’ (cit. D’Avenia) che si possono coltivare a partire da quel pentolino.

Era in quel pentolino che immaginavo sarebbero fiorite alcune delle mie più belle rose?
No. Ma nella mia vita sta succedendo anche questo.

Questo sarà a beneficio del mio bambino (e anche della mia famiglia)? Credo proprio di sì: anche a questo Samuele un giorno potrà guardare per dirsi come potrà lui stesso con-tenere il proprio pentolino, contenendo l’idea che di sé lui stesso sta costruendo.

Rachele Nicolucci
Autrice, fondatrice e coordinatrice di “Sindrome da Apprendimento”

Expert Teacher in organizzazione scolastica – Mi occupo di processi cognitivi dell’apprendere e metacognizione, con un approccio neuropedagogico e della pedagogia della mediazione Feuerstein.

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