
Articolo numero 8
Rubrica “Tra metacognizione e divertimento”
L’attegiamemto metacognitivo si riferisce alla propensione a riflettere sul proprio funzionamento mentale e allo sviluppo di alcune idee di fondo sul funzionamento mentale (che si può analizzare, controllare, modificare, ecc…) .
Imparare a studiare 2, Cornoldi, De Beni, Gruppo MT
L’esperienza professionale e quella materna così come lo studio continuo mi insegnano che è importante dire ai bambini la verità, anche quando si tratta di dire loro che li stiamo aiutando.
Perché questa loro consapevolezza circa le proprie competenze, abilità e “gemme” da “concimare” sia uno strumento per il loro benessere, per la costruzione di una positiva e realistica immagine di sé.
Per dirvi allora di quello che mi sembra importante oggi, torno indietro nel tempo di circa 5 anni, quando Samuele aveva un anno.
Frequentavamo a quel tempo un meraviglioso corso di acquaticità neonatale: era uno dei desideri che avevo sempre coltivato fin dalla gravidanza e abbiamo intrapreso questa avventura quando il piccoletto aveva 5 mesi appena compiuti. Devo dire che in questi anni, grazie a questa bellissima realtà associativa che abbiamo trovato, Samuele ha maturato una strepitosa confidenza con l’acqua, migliorato la sua coordinazione motoria, ma soprattutto ha sviluppato una impressionate capacità motoro-espressiva proprio quando immerso nell’acqua. Strepitoso!
Di questo vi racconterò presto; intanto oggi mi soffermo su una particolare lezione di vita che ho imparato io, mamma Rachele, in quel preciso contesto di acquaticità in gruppo, tra coetanei, per lo più a sviluppo normotipico.
Quando Samu aveva circa un anno, gli altri bambini, a lui coetanei, del corso di acquaticità, senza cromosomi fuori posto, camminavano tutti per lo più. Naturalmente.
Lui, cucciolotto, stava, invece, sperimentando come gattonare: non gattonava ancora né tantomeno si mettava in piedi autonomamente. Se lo si teneva per mano, camminava ma non aveva raggiunto una consapevolezza di organizzazione motoria né trovato il proprio equilibrio in posizione eretta.
In questo modo non era pensabile che lui potesse fare i tuffi dal bordo della piscina in piedi, in modo autonomo, come gli altri: avrei dovuto metterlo in piedi io, mantenendo il suo equilibro ma la nostra scelta genitoriale era quella di lasciarlo libero di raggiungere le tappe evolutive in modo autonomo (approfondisci qua la nostra esperienza di neuropsicomotricità) e renderlo consapevole di tutti i processi necessari affinché, ad esempio, potesse uscire dall’acqua in modo libero, volontario, e in pienezza di libertà e consapevolezza potesse poi organizzarsi per rientrare in acqua.
Quindi, in accordo con il suo amato maestro Carlo, finché tutti gli altri bambini eseguivano il tuffo in piedi, lui poteva farlo da seduto o nella posizione che sceglieva.
Quando, mesi dopo, Samu finalmente conquista la posizione eretta, capita qualcosa che non avevo preventivato: alla nostra richiesta di eseguire il tuffo, dal bordo, in piedi come tutti, non sempre si dimostra collaborativo. Ovvero, la sua risposta era a volte affermativa, altre volte invece, chiedeva di fare i tuffi come gli pareva.
… Eppure Samuele era sempre stato un bambino piuttosto collaborativo e ragionevole… e lo è tuttora.
Cosa era successo in quel contesto? Perché, proprio quando finalmente avrebbe potuto fare i tuffi in piedi come gli altri, pare invece divertirsi a fare diversamente?
Capisco, solo ad un certo punto, che al bambino era semplicemente arrivato un messaggio diverso da quello che viveva nella mia mente di adulto e nella mente del maestro di acquaticità.
Cosa aveva generato questo malinteso?
Molto probabilmente la causa del fraintendimento era stato semplicemente il fatto che nessuno di noi gli avesse mai detto chiaramente che a lui sarebbe stato concesso fare i tuffi in posizione seduta solo fintanto che non sarebbe riuscito a mettersi in piedi.
Non glielo avevo mai detto!
E lui perciò, nel tempo, aveva probabilmente ritenuto di avere il permesso di poter seguire il suo estro creativo in quella situazione.
Mi chiedo allora: quanti bambini, che convivono con uno stato momentaneo o permanente di differenze di abilità, si trovano in queste situazioni di illusioni mentali solo perché nessuno parla loro chiaramente?
Tantissimi temo.
Come abbiamo risolto questa nostra faccenda?
Parlandone chiaramente con lui. Anche se era piccolo, molto piccolo.
Il linguaggio plasma il cervello, diceva Piaget: è fondamentale parlare con i bambini, spiegare cosa succede, quale lavoro stiamo svolgendo, come lo stiamo svolgendo, cosa è possibile fare e come possiamo imparare; bisogna parlare e farlo onestamente e in modo incoraggiante, assicurandoci che il messaggio arrivi davvero al bambino.
Anche quando i bambini parlano poco o vivono delle situazioni di difficoltà del linguaggio (puoi approfondire questo argomento così: la nostra esperienza di Baby Signs a sostegno delle difficoltà di linguaggio e comunicazione).
Alcune personali considerazioni che questo episodio, ben impresso nella mia mente, mi ha permesso di maturare:
- Dire a Samuele, o a suo fratello Gabriele, a un altro bambino o a un preadolescente alunno che lo sto aiutando è un atto tramite cui manifesto la mia stima per loro e onoro la loro dignità: come dire, ti sto dando un aiuto oggi perché al momento questa cosa vista così risulta difficile ma con questo aiuto, invece, puoi farcela (…). Ti dico cioè che so che un domani non avrai più bisogno di questo aiuto e potrai fare questo compito come gli altri, bene e anche da solo.
- Non parlare in modo onesto e non descrivere cosa sta succedendo, non esplicitare i passaggi che la nostra mente di adulto compie molto velocemente (ti dispenso da questo compito, compensiamo in questo altro modo) o magari non concordare insieme la modalità di aiuto, può significare non rendere il bambino consapevole di sé in modo realistico (rispetto le proprie potenzialità, capacità e fragilità) e sminuire autostima e senso di autoefficacia del bambino.
- Non abituare il bambino a avere una immagine realistica di sé potrebbe lentamente permettergli di farsi delle illusioni, ritenersi davvero speciale, comportarsi in modo prepotente. La prepotenza nasce dall’impotenza, diceva la Montessori.
E, dal mio punto di vista crescere un figlio o un bambino, soprattutto se cognitivamente ed emotivamente più fragile, in modo non realistico non è a vantaggio o a beneficio di nessuno. Bisogna saper essere di aiuto al bambino nel processo di costruzione dell’immagine di sé: evitando di creare illusioni, delusioni, ma aderendo alla realtà con sguardo positivo e incoraggiante.
Coraggio, così puoi farcela e pian piano impariamo insieme a… Senza sostituirsi a lui. - Il mio bambino maggiore ha la trisomia 21: perciò alcune abilità e autonomie le conquista con più impegno e in più tempo rispetto a un coetaneo senza condizioni genetiche varie o senza disturbi del neurosviluppo.
Io, mamma, devo dirglielo che quella fatica non dipende dalla sua bravura o dalla sua volontà ma dalla presenza di quel cromosoma. Potrò così rendere onore al suo impegno e costanza. Dovrò infatti vegliare affinché in lui non cresca l’idea che le sue fatiche esistono per una sua colpa o per una sua incapacità. Perché non è così: al pari di un coetaneo lui, per raggiungere gli stessi traguardi deve lavorare di più e per più tempo. E questo impegno gli va riconosciuto. In ogni contesto. - Il mio bambino è consapevole che in alcune circostanze fa più fatica degli altri. Ho l’impressione che lui se ne renda conta da sempre. Un giorno dovrò dirglielo in modo preciso che quella fatica ha un’origine genetica; intanto coltiviamo i suoi sogni e le sue potenzialità: perché questi vanno nutriti sempre, anche, anzi soprattutto, quando per essere realizzati necessitano di più impegno.
E’ importante comprendere che le parole che usiamo hanno sempre un impatto emotivo e anche cognitivo sulle persone a cui le destiniamo, oltre che su chi le pronuncia. E’ importante capire che i bambini strutturano il proprio sé anche a partire dalle parole che vengono loro rivolte. […]
Credo anche che le parole proprio in virtù del loro enorme valore semantico e del grande significato emotivo che custodiscono in sé possano, se utilizzate correttamente e intellettualmente in modo onesto, essere liberatorie, come dei buon alleati, strumenti per costruire inclusione e un tessuto sociale realmente rispettoso dell’altro e del percepire dell’altro.
La parola crea, il linguaggio ha una potere enorme: dunque usiamo questi strumenti per sostenere la crescita dei nostri figli e di chi incontriamo.
Articolo di Rachele Nicolucci, La forza creatrice delle parole – “Speciale?” “Sì, solo per i miei figli!”
Infine, ma non meno importante, dobbiamo considerare che un bimbo fragile cognitivamente potrebbe fare davvero fatica a disimparare un’idea/strategia ormai acquisita, tanto più se divenuta “strutturale”. E questo proprio in virtù della “rigidità” dei suoi ‘ingranaggi’ cognitivi.
Vale dunque la pena certamente dare buone abitudini cognitive, emotive e comportamentali sempre, a ciascun bambino: nel caso di una creatura che fa veramente fatica ad apprendere (a prendere-appropriarsi– cioè dall’ambiente esterno di stimoli per poi rielaborarli e farli propri), questo, a mio avviso, vale di più.
Diciamolo allora ai bambini quando forniamo loro un aiuto, di qualsiasi entità e in qualsiasi ambito: perché il nostro agire sia davvero di aiuto per loro, che un giorno saranno uomini e donne e di noi e del nostro aiuto dovranno fare a meno.
“Aiutami a fare da solo” (cit. Montessori)

Expert Teacher, caregiver, sibling
Mi occupo di apprendimento, dei processi cognitivi dell’apprendere e di metacognizione, a servizio soprattutto di chi non si basta da solo cognitivamente.
Lo faccio in ottica neuropedagogica e della pedagogia della mediazione del dott. Feuerstein.
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