Mamme speciali, bambini speciali, genitori speciali: una categoria di umani?
In questi anni ho spesso sentito parlare di alcune persone come di esseri speciali: mamme speciali, bambini speciali, persone speciali. Di cosa si tratti davvero, e cioè a quale “specialità” si faccia così riferimento, non mi è sempre del tutto chiaro… o più che altro non è spesso esplicitato chiaramente e senza ambiguità.
Mi capita, sicuramente per deformazione professionale, di ricercare la soluzione a certi dilemmi proprio nella etimologia delle parole, ben consapevole della sorprendente ricchezza linguistica e lessicale italiana.
Così, pensando e ricercando il significato esatto di questo aggettivo, speciale, non posso che chiedermi chi sia speciale per me e se davvero esistano le mamme e i bambini di categoria “speciale”.
Beh, allora, dato che oggi, 13 luglio, è anche il compleanno della mia mamma (buon compleanno mamma Francesca!), che è una donna benvoluta da chi la conosce e di grande forza vitale, ripercorro con la mente alcuni momenti della mia vita da figlia e penso allora che lei sia davvero una donna speciale: non è comune riuscire a crescere 7 figli al giorno d’oggi, con successo e nonostante circostanze non sempre favorevoli. Per questo primo motivo io la ritengo una donna speciale: riconosco cioè che lei tra tante mamme di mia conoscenza è un’eccezione, si direbbe quasi un’eccezione alla norma, proprio per la sua lodevole condotta nell’allevare la prole con successo e nonostante tutto. E di questi motivi per cui io la reputo speciale lei sa già.
Inoltre, per me, lei è speciale perché è quella che io riconosco come MIA mamma all’interno di un gruppo infinito di madri: tra le madri di tutti i tempi e di tutti i luoghi è lei “la mia mamma”; posso cioè, nei suoi confronti, riconoscere un attaccamento madre-figlio che su questa Terra io e i miei fratelli abbiamo nutrito con lei e, nell’affermare “mamma, sei speciale” intendo che è lei, specificatamente proprio lei, tra tutte le madri del mondo, a essere madre per me, e che i suoi atteggiamenti di cura verso di me hanno un valore davvero grande per la mia vita.
Certamente allo stesso modo si potrebbe ragionare rispetto ai papà, ma mi risulta che più frequentemente l’aggettivo speciale venga abbinato alla figura materna in quelle circostanze enigmatiche cui mi riferisco io (qua non dirò altro a riguardo dei papà per non eccedere).
E io? Io sono una mamma speciale?
Molto semplicemente allora mi domando se le volte in cui qualcuno ha pensato a me come una mamma speciale lo abbia fatto in riferimento a un particolare merito o talento che mi riconosce (ma che non viene così esplicitato) o in virtù di uno specifico legame che questa persona vive con me, riconoscendo me come “specifico” e di valore per sé.
Oppure, molto più probabilmente, quando qualcuno ha detto di me che sono “una mamma speciale”, ha inteso altro.
La condizione genetica sindrome di Down non ha nulla per la quale essere considerata speciale.
Come ogni genitore, anche io amo infinitamente i miei bambini. E loro sono le creature più speciali che esistano per me. Però la trisomia 21 del mio bambino non è per niente una caratteristica da augurarsi o da desiderare per sé stessi o per i propri figli: non è speciale per nulla!
Lettore caro, non si tratta di dilettarci con qualche tecnicismo linguistico o di proporre un gioco semantico, ma semplicemente di sottolineare il fatto che la trisomia 21 (così come altre condizioni genetiche o patologie) non delinea di per sé una “specie” di persone, una categoria di esseri umani gentilmente ospitati dal pianeta Terra tra tanti altri individui. E la sindrome di Down non comporta nemmeno, purtroppo, una condizione di vita invidiabile, che altri potrebbero desiderare per i propri figli a sviluppo normotipico.
No, la sindrome di Down non ha nulla di speciale, e non comporta nessun privilegio che altri potrebbero preferire per sé o per i propri cari. Ogni madre di un bambino con una eccezione genetica farebbe di tutto per riequilibrare la condizione neurobiologica del proprio figlio: non c’è alcuna specialità, nessun valore aggiunto.
Le parole che scegli hanno un impatto sulle persone alle quali le indirizzi
Sappiamo che le parole hanno un impatto emotivo, relazionale, motivazionale e anche cognitivo sulle persone a cui le destiniamo, oltre che su chi le pronuncia.
E’ importante capire che i bambini strutturano il proprio sé anche a partire dalle parole che vengono loro rivolte.
Un bambino che cresce, ad esempio, sentendo di dire di sé che è un bambino disabile, intendendo così che il suo sé è per lo più definito dalle sue stesse fragilità o, peggio ancora, che queste stabiliscono il confine delle sue possibilità, quale idea avrà di sé stesso? Quale risorse potrà sviluppare per superare i limiti che sperimenta ogni santo giorno?
Comprendo quanto possa essere difficile chiamare per nome alcune circostanze, per esempio patologie, oppure tumori, le emozioni…; permettimi allora di sottolineare il fatto che non è corretto ciò che oggi è ancora estremamente comune: i bambini che hanno la trisomia 21 non sono la loro fragilità genetica, non sono definiti solo da quel cromosoma 21 in più, scoperto dal dott. Down (da qui il nome sindrome di Down). Negli ultimi anni si inizia a comprendere quanto il concetto di disabilità sia legato a quello di ambiente: è anche nella complessa relazione salute – corpo – mente – ambiente fisico e sociale che si definiscono le circostanze di vita di ogni individuo. E’ vero: non c’è nulla di speciale nel vivere una condizione di vita di maggiore fragilità, e questa stessa condizione non solo non definisce totalmente la persona (i bambini con la trisomia 21 non sono bambini la trisomia 21) ma non ne stabilisce nemmeno il valore e le potenzialità, strettamente legate anche all’ambiente.
Dal’tra parte credo anche che le parole custodiscano e liberino, se utilizzate correttamente e intellettualmente in modo onesto, libertà: possono essere liberatorie, come dei buon alleati della nostra felicità -compimento-, strumenti per costruire una realtà onesta e giusta, un tessuto sociale realmente rispettoso dell’altro.
Mi aspetto dunque, sarebbe davvero bello, un giorno non sentire più specialisti, medici, insegnanti e professionisti dire “quei bambini là…”, “loro”… “i down”… indicando così sbrigativamente e poco delicatamente l’insieme dei bambini con trisomia 21; mi piacerebbe, un giorno, sarebbe bello, che chi sceglie di essere figura di aiuto per altri possa guardare a questi altri più fragili senza fermarsi alle diagnosi e etichette sociali, sapendo “tirar fuori” potenziale…

Le parole creano. Scegliamole con attenzione.
Riassunto
- Se usiamo speciale (così come bravo) in riferimento a un bambino per indicarne talenti e capacità, possiamo complimentarci con lui in modo esplicito: per esempio potremmo complimentarci per lui per la cura che ha messo nel gesto grafico o per l’attenzione che ha prestato nel colorare dentro i margini;
- se lo usiamo in riferimento a una madre possiamo manifestare il nostro stupore e riconoscimento per, ad esempio, il suo atteggiamento di cura nei confronti dei piccoli in modo chiaro e completo: il sostegno della rete, quello tra genitori è importante, riconoscere nell’altro capacità e attitudini è importante per sé stessi e per l’altro (puoi continuare questo tipo di riflessione con la lettura di questo articolo: Partecipare).
- Se, invece, speciale in riferimento a me (o a lui) -così come a tante altre mamme e bambini che in vari step della vita affrontano delle difficoltà- è per indicare il fatto che il mio bambino, tra le sue tante caratteristiche, ne ha anche una genetica che consiste in un cromosoma in più… beh… in questo caso allora stiamo parlando di un’altra cosa, che si chiama semplicemente trisomia 21. Così, invece che dire “sei una mamma proprio speciale!”, si potrebbe semplicemente dire: capisco che sia faticoso, veramente faticoso: hai tutta la mia stima. Oppure: immagino che non manchino le preoccupazioni, e deve essere proprio difficile non poter abbassare mai la guardia, ma sono contenta che stiate riuscendo a trovare un buon equilibrio e un modo per aiutare il bambino.
La parola crea, il linguaggio ha una potere enorme: dunque usiamo questo strumento per sostenere, in primis, la crescita dei nostri figli e anche di chi incontriamo o di chi altri ci affidano. Scegliamo parole che infondano coraggio, tramite cui possiamo far crescere autostima e motivazione, pur sempre attraverso una forma di reale onestà intellettuale.
Mi reputo una mamma speciale? Sì, per i miei figli, per Gabriele e Samuele che in me riconoscono la loro mamma, che li ama al meglio delle proprie possibilità e divenendo così il proprio meglio possibile in questo momento.
Per approfondire:
Il pentolino di Antonino
Un delizioso libro per l’infanzia per parlare di resilienza. Lettura consigliata a grandi e piccini.