
L’intelligenza si allena.
A mia nonna Santina, la cui eredità custodisco da sempre nel cuore. Donna coraggiosa, intraprendente, moderna e divertente.
“Educazione significa sempre cambiamento.
Se non ci fosse niente da cambiare, non ci sarebbe niente da educare.”
Vygotskij
Parliamo di abilismo, disabilità e trisomia 21
Riprendiamo, finalmente, dopo quasi un anno di pausa, dovuta alla necessità di dare spazio a altri progetti professionali (e personali)!
Riprendiamo quindi finalmente con la scrittura dei contenuti del blog, che tanto mi è mancata: lo facciamo affrontando un argomento che mi sta a cuore da sempre, prendendolo da un’angolazione di cui culturalmente stiamo gradualmente prendendo sempre più consapevolezza.
Metto perciò anche a tua disposizione le mie ricerche, studio e approfondimenti nella certezza che un genitore informato è un genitore più forte, che un docente informato è un docente più forte, e che possiamo, tutti insieme e ciascuno facendo la propria parte, lasciare ai nostri figli un mondo migliore.
Sei pronto caro Lettore? Iniziamo!
Cosa si intende per abilismo?
Digitando, banalmente, su google “abilismo”, al momento si trova questo tipo di risposta: “Atteggiamento discriminatorio e pregiudizialmente svalutativo verso le persone con disabilità.”
Sempre in rete puoi trovare anche: “L’abilismo è lo stigma e la discriminazione nei confronti delle persone disabili e, più in generale, il presupporre che tutte le persone abbiano un corpo abile.“
Un corpo abile. Segnatelo perché su questo torniamo tra qualche riga…
Dunque il fenomeno dell’abilismo, che probabilmente esiste da sempre ma del quale stiamo prendendo lentamente coscienza solo in tempi più recenti, indica il fatto che un gruppo di persone possa sostenere legittimo discriminare altre persone abili nel corpo e nella mente diversamente in termini di qualità e quantità rispetto al gruppo di riferimento – rispetto a quanto atteso socialmente.
Si parla di abilismo, di comportamenti e pensieri abilisti, tutte le volte che una persona viene discriminata e giudicata sulla base del fatto che le sue abilità e funzionamento del corpo e della mente non siano quelli “tipici” e della maggior parte della popolazione.
A volte è persino difficile individuare se un certo pensiero (ad esempio: “Non pensavo fosse così bravo!”) oppure una certa espressione verbale (“oh, ma è bella però!”) siano abilismo o meno. Che poi fa spesso pendant con il pietismo e/o buonismo…
Torniamo a noi: consideriamo, prima di tutto, che si tratta perciò di una prospettiva in realtà molto frequente e, direi, ahimé radicata socialmente e culturalmente. La prospettiva abilista è propria, infatti, anche da molti genitori, docenti e altre figure di aiuto: e questo, naturalmente, non è bene perché contribuisce a aumentare la distanza che ci separa dalla realizzazione di un mondo inclusivo.
Capisco che possa capitare comunque di utilizzare, magari senza accorgersene, espressioni e frasi che profumano abilismo. Pensa a quando hai pensato, detto o fatto qualcosa che sottointendesse lo stupore o incredulità per il fatto che quella persona sia riuscita a fare qualcosa nonostante la sua disabilità, ANCHE SE in condizione di disabilità.
Nella nostra esperienza personale, per esempio, ci è successo che qualcuno ci abbia rivolto espressioni, magari in buona fede, sottolineando ad esempio il proprio stupore per il fatto che il nostro Bambino con sindrome di Down (preferisco, lo sai, trisomia 21) riuscisse a fare delle cose (ad esempio imparare a leggere e scrivere, a nuotare, a sciare ecc). Ed è vero che nell’immaginario comune sarebbero tante le attività per le quali i bambini con trisomia 21 non sarebbero sufficientemente abili, così come è altrettanto vero che sono ancora la minoranza quelle figure di aiuto disponibili a mettere il Bambino “diversamente abile” nelle condizioni di accedere alle opportunità di Vita, di istruzione, cultura, movimento, sport, ecc previste per i suoi pari.
Siamo più frequentemente inclini a ritenere responsabile il cromosoma 21 di qualsiasi tipo di fatica e fragilità il Bambino con sindrome di Down sperimenta e che trisomia 21 = non abile, impossibilitato a farcela, destinato all’insuccesso, alla solitudine e all’infelicità. E
Pensa a tutte le volte in cui ti è stato detto o tu stesso hai pensato: “Ah, però è anche bello!”; “Ah, ma sta imparando a leggere?”; “Ah, ma guarda: sa suonare uno strumento!”; “Ma che braaavoooo!!”; “ma in fondo anche loro sono bambini come gli altri”; “Poverinooo….”; “Questi bambini qua…” o pensa a tutte le volte che viene usata la parola “down” (Down con la /d/ maiuscola perché è il cognome del medico di riferimento) come offesa che sminuisce o svalorizza l’altro.
Abilista è perciò la prospettiva che tende a identificare la persona con il suo deficit.
Abilista è chi non riesce a far emergere l’Altro in condizione di disabilità nella sua dimensione più autentica: è il genitore che vede il cromosa in più prima ancora delle attitudini e desideri del proprio Bambino; è il docente che ritiene responsabile il cromosoma 21 in più dell’insuccesso scolastico di quel Bambino che frequenta la sua classe.
C’è da chiedersi allora: cosa significa abilità?
Chiariamo allora questo concetto che sta alla base. Cosa si intende per abilità?
Beh, se hai seguito uno dei miei corsi di formazione, saprai rispondere sicuramente perché mi ritrovo a dirlo sempre, chiarendo la differenza una volta per tutte tra contenuto – abilità e competenza (e ogni volta resto stupita del fatto che questo spesso non sia noto nemmeno a tanti docenti…).
Per abilità si intende, generalmente, la capacità del soggetto di eseguire un certo compito, anche quando questo è complesso, come una procedura, costituito da più sequenze di azioni.
Attenzione: l’abilità può essere non acquisita, in via di acquisizione o del tutto acquisita.
L’abilità è acquisita quando il soggetto è in grado di svolgere quel certo compito in modo efficace e efficiente, anche ripetutamente, e con un basso investimento di risorse cognitive. Questo significa cioè che sviluppiamo una certa abilità (ad esempio allacciarsi le scarpe, cucinare, lavarsi, ecc) quando compiamo tutte le azioni richieste per portare concludere quel compito (allacciarsi le scarpe) senza un investimento della coscienza, in modo quasi automatizzato potremmo dire, e naturalmente con successo.
Diversamente, il concetto di inabilità indica l’impossibilità o l’incapacità di compiere attività che consentano la realizzazione delle azioni desiderate – di un certo compito.
“Il personaggio messo in scena, il disabile, è di fatto una maschera, l’attribuzione di significato che disegna lo spazio culturale e sociale entro il quale facciamo esperienza del deficit, si prefigura come sfondo che si focalizza sul deficit e fa risaltare in primo piano la figura, ovvero la persona disabile, che viene identificata per quel che non ha piuttosto che per le sue caratteristiche intrinseche. Questo modo di vivere la disabilità genera esclusione e costringe la persona ad esperirsi come identità disabile, cioè non come costruzione di sé ma come ciò che il contesto-sfondo ha deciso di negoziare per lui/lei.”
F. Salis
Qual è il problema di una prospettiva abilista?
Il problema è, a mio avviso, almeno di duplice natura.
IL PRIMO PUNTO E’ QUESTO:
da sempre sovrapponiamo socialmente e culturalmente il valore della persona alla sua capacità di prestazione. E questo è un grande guaio per tutti, adulti compresi, con il quale la nostra generazione, e più in generale quella dei “giovani adulti”, sta facendo i conti rivoluzionando quel che hanno creduto valido fino a qua. Siamo forse quel che produciamo? E allo stesso modo potremmo chiederci: siamo solo le nostre fragilità? Siamo i nostri deficit?
Certo è importantissimo, su più piani, sviluppare la capacità del fare, acquisire e potenziare abilità, avere la possibilità di “produrre” idee, progetti, prodotti, azioni complesse per inserirsi in società e adattarsi in modo funzionale, trovando così un proprio posto nel mondo.
Ma spesso perdiamo di vista la prospettiva complementare: il fatto cioè che, quando tutto questo (lo sviluppo di abilità) si realizza più faticosamente o quando non può realizzarsi perché la persona ha perso o non ha mai avuto le risorse corporee e/o mentali che le permetterebbero lo sviluppo di alcune abilità, non è il valore della persona a essere intaccato!
NON SIAMO QUEL CHE PRODUCIAMO, IL NOSTRO VALORE E’ PIU’ GRANDE DELLA NOSTRA PRESTAZIONE.
E questo, devo dire, che ho dovuto ripetermelo più volte io stessa per poter cominciare a prendere le distanze da comportamenti che mi sono stati rivolti e che, incosciamente, avevo fatto miei: nessuno vale per il voto preso a scuola; nessun voto scolastico racconta del valore di quella persona, e nemmeno il voto del diploma o di laurea. Nessuno dei miei 110 racconta del valore della mia persona: piuttosto ti dà qualche indicazione rispetto a come ho risposto alle aspettative di quel percorso formativo e della preparazione tecnica che ho potuto sviluppare in relazione a quel che mi hanno offerto
Diciamolo diversamente pensando al tipo di utenti che leggono questo articolo: il valore del mio Bambino non cambia e non è influenzabile in base alle tappe di sviluppo che ha conquistato, nemmeno in base al suo livello di istruzione, o in base al suo quoziente di intelligenza o all’età mentale refertata dai vari test valutativi.
Identificare la persona, adulta o infante che sia, con le proprie abilità e quindi con i propri deficit è molto rischioso perché comporta la perdita dell’identità individuale, dell’unicità di ogni Persona, e l’assunzione di una identità di categoria: il disabile.
IL SECONDO PUNTO E’ QUESTO:
siamo abituati a pensare che “disabilità” faccia rima con impossibilità e insuccesso.
Disabilità è negli stereotipi comuni sinonimo di incapacità.
Ma così non è e non possiamo più culturalmente arrogarci il diritto di generalizzare, perché all’interno della stessa etichetta “disabilità” non solo sono racchiuse tantissime condizioni di salute molto differenti tra di loro , ma soprattutto perché, anche qualora si trattasse di una stessa condizione etichettata come di disabilità (esempio trisomia 21), dobbiamo sempre considerare che questa è vissuta dalle persone! E che le persone vivono in ambienti (fisici, relazionali, emotivi, climatici, ecc ecc) diversi, che possono essere favorenti o sfavorevoli, e in questo senso far risuonare in modo estremamente differente la condizione di disabilità stessa.
Questo dato di fatto ci obbliga a crescere culturalmente e a essere figure formate, che sappiano come sostenere lo sviluppo di quel che è nella potenzialità di una gemma, di quel che sarebbe possibile a quel Bambino sviluppare con l’aiuto intelligente dell’Adulto di riferimento.
Forse è cambiata la sindrome di Down?
Facciamo un passo indietro e chiediamoci in maniera provocatoria: è forse cambiata la trisomia 21 negli anni?
Te lo chiedo perché potresti aver notato che i bambini che oggi vivono la trisomia 21 sembrano avere abilità e prospettive di vita futura inimmaginabili fino a qualche decennio fa.
Come mai? E’ forse cambiata la condizione genetica della sindrome di Down?
Naturalmente no, ovvero la condizione genetica e biologica non si è modificata; eppure la condizione di vita delle persone con sindrome di Down è assai differente da quel che era anche solo 30/40 anni fa! E questo, assumendo uno sguardo più ampio, è in realtà vero un po’ per tutte le condizioni di fragilità che amiamo (!!!) tanto etichettare sotto il termine “disabilità”.
Come mai sta succedendo questa cosa? Non sarà mica che il modo in cui narriamo le cose, ma ancora prima: il modo in cui le viviamo e il modo in cui veniamo educati (e quindi il modo in cui siamo inclusi e quello in cui a nostra volta impariamo a includere) possa fare realmente la differenza?
Certo che sì perché non siamo solo il nostro DNA!!!!
E a questo proposito può essere molto interessante approfondire con il prossimo percorso formativo laboratoriale on line “Anche gli Adulti apprendono. L’intelligenza si allena! “, occasione durante la quale sperimentiamo in modo laboratoriale come può cambiare l’approccio alla fragilità e come il nostro intervento possa sostenere un Piccolo che non si basta cognitivamente da solo.
Disabilità
Accompagnandoti lungo questo excursus che ho preparato per illustrarti alcune delle principali tappe che rappresentano l’evoluzione del concetto di “Disabilità”, voglio subito portare la tua attenzione, mio caro Lettore, sul fatto che appunto nel corso di questi ultimi decenni abbiamo iniziato prima di tutto a dare un nome a certe situazioni, che sono tali probabilmente fin da da quando esiste la nostra specie.
Quindi prima attenzione: il fenomeno che noi oggi chiamiamo “Disabilità” non è qualcosa solo dell’uomo contemporaneo, ci sono infatti studi anche di ricostruzione archeologica che ci permettono di avere qualche elemento di conoscenza (e dunque di giungere ad alcune ipotesi) relativamente addirittura all’era paleolitica.
Seconda attenzione: la reazione del gruppo “normotipico” rispetto a questa condizione di Vita fragile si è espressa, nei tempi – luoghi e culture, in molti modi differenti tra loro: aiuto reciproco, sostegno, ma anche allontanamento, rifiuto, abbandono, oscuramento, fino a arrivare alla eliminazione.
Terzo elemento: differenti sono state anche le spiegazioni che l’Uomo ha trovato, nel corso della Storia, nel tentativo di comprendere il perché esista la condizione della fragilità , del non bastarsi cognitivamente da soli, e come reagire ad essa. Per esempio nell’Antichità gli eventi tragici, le deformità, le malattia, le catastrofi ecc. erano spiegate come una naturale punizione per non aver rispettato le regole condivise. Poi con l’arrivo di Gesù e del cristianesimo l’approccio alla fragilità (malattia, disabilità) comincia a cambiare e inizia a farsi strada un messaggio rispetto al quale abbiamo ancora tanto da crescere (anche all’interno delle scuole cattoliche!): queste condizioni di Vita non sono punizioni divine per qualche peccato commesso dalla persona o dai famigliari! Ed è così che, lentamente, molto gradualmente, si fa strada una nuova concezione della giustizia e disuguaglianze. Nel corso della Storia intervengono poi altre vicende, culture e istituzioni (tra cui la stessa Chiesa) a ostacolare questo tipo di evoluzione fino a arrivare alla teoria eugenetica.
Superando il periodo delle atrocità delle grandi guerre e arrivando a un tempo più vicino a noi, agli anni Settanta, si comincia a intravedere delle novità che mettono in discussione non solo la concezione di “sano” e “malato” ma anche l’approccio adeguato (ricordiamoci che venivano utilizzati i manicomi e le camice di forza).
Progressivamente, verso gli anni Ottanta, succede che le questioni relative alle varie espressioni di fragilità non sono più solo beneficienza e appannaggio delle Opere pie, ma diventano faccende di interesse sociale, e questo si traduce quindi anche in un progressivo crescendo di associazionismo e volontariato.
Sintesi fin qua
Il modo in cui diciamo delle “cose” non esprime solo il pensiero che noi abbiamo riguardo queste stesse cose, ma anche contribuisce a plasmare le “cose” stesse. Spesso mi hai sentito dire:
“Lo sguardo con cui guardiamo il mondo crea il mondo in cui viviamo”.
Rachele Nicolucci
E così adesso, insieme, scendendo in alcuni particolari, vorrei accompagnarti per mano per comprendere che le parole che usiamo o che abbiamo usato senza nemmeno conoscerle -“ritardato”, “down” (Down!!!), “handicappato”, “spastico”, “menomato”, “idiota”, ecc. – oltre a dire del livello di istruzione, educazione e saggezza di chi le usa, raccontano anche di quale cultura e società siamo intrisi, direi proprio figli. Quale ambiente educativo, culturale e sociale ha dato forma alla nostra mente.

Quali idee, novità, ricerche scientifiche, scoperte, ma anche credenze, abitudini, sentito dire, ecc. si sono talmente radicati nella nostra generazione, grazie certo anche al contributo di chi ci ha preceduto, da essere ormai parte del nostro linguaggio, pensiero e prospettiva senza averne quasi conoscenza. Ma da oggi, anche grazie a questo articolo, ne avrai certamente più consapevolezza e niente sarà più uguale a prima.
Iniziamo a esplorare qualche particolare più vicino a noi!
Uno dei primi documenti in cui si fa riferimento al concetto di disabilità risale al 1975 ed è un documento delle Nazioni Unite in cui per la prima volta si parla dei DIRITTI delle persone disabili (nota bene l’aggettivo che fa tutta la differenza, l’etichetta che qualifica: persone disabili).
E’ del 1980 il documento OMS chiamato “Classificazione internazionale delle Menomazioni, disabilità e handicap” che ha rappresentato un punto di riferimento importante a livello culturale, linguistico, pedagogico e direi anche didattico. Quello che mi preme sottolineare è che in questo documento si fa riferimento appunto a tre elementi, che continuano a rappresentare una pesante eredità, che sarà difficile e complicato superare del tutto (ma noi ci stiamo provando, anche facendo informazione così!).
Facciamo un po’ di chiarezza quindi rispetto alcune parole che spesso vengono usate in modo improprio.
Il termine menomazione, presnete nel documento di cui sopra, era utilizzato per indicare una perdita, una anomalia nella struttura anatomica o nelle funzioni psicologiche della persona;
il termine disabilità era utilizzato per indicare la limitazione nel compiere attività di base, limitazione che poteva essere transitoria, permanente, progressiva, regressiva, ecc. Il concetto di disabilità era inteso come una limitazione dell’azione umana rispetto agli standard e poteva dare luogo all’handicap -di cui ti dico tra un attimo-. Disabilità quindi come importante limitazione (impossibilitato a farcela), come deviazione del comportamento atteso e ritenuto “normale”.
Il concetto di handicap, invece, era utilizzato in riferimento alla condizione di svantaggio in relazione al contesto sociale: quindi l’handicap, delineato in conseguenza di una menomazione e/o disabilità, era inteso come impedimento, come limitazione, nell’adempiere al proprio ruolo sociale atteso e considerato “normale” per l’età del soggetto e il contesto socio-culturale.
Cosa si intende per Disabilità Intellettiva?
Ora, chiaro che anche dal nostro passato precedente gli anni ’70 abbiamo ereditato abitudini lessicali che risultano ancora saldamente radicate, soprattutto lì dove c’è poca cultura e formazione.
L’espressione “Disabilità Intellettiva” (DI) è stata introdotta dal manuale APA (2000) e dovrebbe sostituire ciò che veniva usato precedentemente, ovvero”Ritardo Mentale”, che tecnicamente appare un termine non del tutto corretto.
La locuzione “ritardo mentale” entra a far parte della nosografia ufficiale nel 1988, quando la si ritrova nel Manuale Diagnostico e Statistico (Stati Uniti) e nell’International Classification of Disoders.
Prima di questa espressione, e quindi almeno fino agli anni Settanta, come testimoniano molti testi dell’epoca, si utilizzavano per lo stesso fenomeno parole come “oligofrenia”, “deficienza mentale“, “frenastenia”, “idiozia“, “imbecillità”.
Precisiamo che il concetto di Ritardo Mentale fa ovviamente riferimento alla condizione di uno sfasamento temporale del percorso di sviluppo evolutivo, e quindi, implicitamente, fa anche riferimento all’idea della possibilità di un certo recupero.
Mi sembra importante farti sapere che nelle iniziali classificazioni nosografiche il Ritardo Mentale era definito tale quando presenti tre ordini di elementi (ICD-10, 1990): 1. esordio entro i 18 anni; 2. Q.I. al di sotto del punteggio fissato come limite di norma (70 punti); 3. deficit del funzionamento adattivo (che è quando il soggetto non risponde alle richieste dell’ambiente in modo adeguato per l’età cronologica e aspettative socio-culturali).
Ciò che è più importante che tu, caro Lettore, possa focalizzare non sono naturalmente i tre fattori di cui sopra ma i limiti di un tale approccio che ci ha condotti per anni, contribuendo a radicare dentro la nostra cultura affermazioni non corrette in merito alle condizioni di disabilità.
Ad esempio focalizza il fatto più importante: oggi le neuroscienze ci assicurano che l’intelligenza dell’essere umano non è una questione di prestazione, di risultato di un certo processo. Insomma il concetto di intelligenza non coincide con la prestazione che tuo Figlio ha ottenuto ai test psicomotrici, che valutano (solo) il Quoziente Intellettivo (che Vigotsky ha definito un “artefatto culturale”…).
Attualmente, dunque, lo avrai già capito si preferisce utilizzare la definizione di “Disabilità Intellettiva” (Learning Disability nel mondo anglosassone), tecnicamente chiamata anche “Disturbo dello Sviluppo Intellettivo Evolutivo”, considerata appunto un disturbo del neurosviluppo.
La DI è caratterizzata da un esordio nel periodo dello sviluppo e da un certo “deficit nel funzionamento intellettivo e adattivo negli ambiti concettuale, sociale e pratico” (cit. S. Temofonte).
Nel 2010, nella Decima revisione della classificazione internazionale delle sindromi e dei disturbi psichici e comportamentali (ICD-10, 2010; International Classification of Diseases) viene definito “come condizione di interrotto o incompleto sviluppo psichico, caratterizzata soprattutto da compromissione delle abilità che si manifestano durante il periodo evolutivo e che contribuiscono al livello globale di intelligenza, cioè quelle cognitive, linguistiche, motorie e sociali. “
Mentre quindi l’espressione “ritardo mentale”, ancora radicata culturalmente, dovrebbe fare più riferimento al fatto che lo sviluppo possa essere “in ritardo”, rallentato ma omogeneo rispetto al gruppo di riferimento a sviluppo tipico (attento però Lettore a quel che ti aggiungo dopo), alcuni studiosi evidenziano, invece, il fatto che generalmente nella condizione di Disabilità Intellettiva ci sia una certa disomogeneità di sviluppo.
Rispetto a questo discorso possiamo infatti conoscere due prospettive differenti: la teoria “Develompmental theory” del 2007 sostiene che i Bimbi con DI procedano più lentamente pur all’interno del percorso evolutivo tipico, e che più spesso giungano a un arresto precoce del proprio percorso evolutivo (Van de Molen); la teoria chiamata “Difference theory” , precedente a quella del 2007, sostiene, invece, che nel caso di DI ci sia un deficit specifico nel funzionamento cognitivo e che perciò lo sviluppo proceda in modo non tipico (Bennet-Gates e Zigler, 1998).
Fortunatamente, in tempi più recenti, gli esperti prendono in considerazione la possibilità che ogni individuo possa manifestare la Disabilità Intellettiva in modo assolutamente individuale e personale, tanto più che spesso sono presenti anche altre condizioni di fragilità in comorbilità con la DI. Per questo sta maturando la convinzione che i Bambini potrebbero manifestare sia deficit specifici (come indicato dalla prospettiva del 1998) sia ritardi nei tempi di sviluppo (2007).
In ogni caso quel che può essere importante, un gran bel passo avanti nella modalità di cura, è che venga superata la diagnosi nosografica procedendo, invece, nella presa in carico della persona con DI, alla descrizione del profilo cognitivo individuale, secondo test neuropsicologici:
“La valutazione dovrebbe avere l’obiettivo di identificare le caratteristiche neuropsicologiche che hanno il maggiore impatto sulla qualità della vita della persona, non solo attraverso le capacità cognitive, ma anche i comportamenti associati, le abilità personali, l’adattamento e l’autonomia. […] fondamentale individuare un profilo di funzionamento, che evidenziasse non solo le differenze specifiche rispetto allo sviluppo tipico, ma anche (e soprattutto) i punti di forza e di debolezza della bambina facendo riferimento alla sua età mentale, piuttosto che basato esclusivamente sul confronto con la norma di riferimento per l’età cronologica” .
S. Temofonte
Cosa cambia nel 2001?
Nel 2001 (dove eri nel 2001? Quanti anni avevi? Di cosa ti stavi occupando? Non sono passati tanti anni, a pensarci bene…)…
Nel 2001, dicevo, l‘OMS elabora un documento chiamato “Classificazione internazionale del funzionamento delle disabilità e della salute“, che è uno strumento a servizio di tutta la popolazione. Questo documento rappresenta un punto di svolta importante: la disabilità viene infatti intesa come conseguenza, come risultato, di una complessa relazione tra salute – fattori personali e ambiente!
Si tratta di un approccio bio-psico-sociale, integrato, dal sapore olistico (finalmente!) e non più esclusivamente medicalizzato. In questo modo si comincia a tenere conto del fatto che il nostro esserci e esistere è complesso e frutto di più componenti: genetiche, certo, ma anche personali, di salute e ambientali! Molto, moltissimo, del nostro sviluppo, della nostra crescita e quindi molto di quel che siamo, dipende proprio dall’ambiente in cui siamo inseriti, e di questo neuroscienze e neuropedagogia stanno dando testimonianza.
Il documento rappresenta un primo tentativo di traghettare da un approccio alla disabilità di tipo medico-patologico (disabilità come menomazione, come perdita, mancanza fisica e/o psichica) a uno che tiene conto dell’individuo come essere sociale inserito in un ambiente con il quale interagisce.
Ambiente che può quindi naturalmente rappresentare facilitazioni o ostacoli, ambiente che può diventare strumento per facilitare la condizione di vita oppure no.
Ambiente che può, insomma, ridurre lo svantaggio (obiettivo a cui dovremmo ambire tutte le figure di cura) oppure, ahimé, amplificare la condizione di svantaggio.
Ad essere definito come SFAVOREVOLE non è più la condizione che il soggetto vive quanto l’interazione tra la persona e il suo contesto di vita.
“Sebbene la disabilità sia correlata allo svantaggio, non tutte le persone con disabilità sono ugualmente svantaggiate. Molto dipende dal contesto in cui vivono e dal fatto che abbiano uguale accesso alla salute, all’istruzione e al lavoro”
(World Health Organization)
La senti la differenza?
Questa tappa del 2001 rappresenta perciò il momento in cui a livello internazionale si chiede di superare una terminologia, radicata in noi e difficile ancora da sradicare, che è incentrata sul deficit e che identifica le persone con il deficit. Per questo nel documento secondo i criteri ICF si utilizzano termini più descrittivi e in riferimento al contesto di vita, puntando inoltre l’attenzione sulle risorse e abilità del soggetto.
A che punto siamo?
Oggi la disabilità è intesa come un funzionamento non adeguato, come una condizione di salute in un ambiente sfavorevole.
E per questo si intende (finalmente!) come sempre maggiormente necessario assicurare alle persone con disabilità uguale accesso agli stimoli ambientali, alle esperienze di vita formative e costituenti in termini di istruzione, salute del corpo e della mente.
Date queste premesse, comprendi il fatto che anche a livello didattico, a scuola ad esempio, le cose dovrebbero andare in modo diverso da quel che poi realmente succede: tanto più che, non esistendo più la scuola del programma, ma essendoci la scuola delle competenze, non è più tanto lo studente con disabilità a doversi adeguare alle richieste del contesto o a dover rispondere a un certo programma standardizzato e pensato uguale per tutte le classi e per tutti i componenti della classe (…), che poi appunto il programma non esisterebbe più nella scuola che certifica competenze (ma se molti non conoscono la differenza tra il concetto di abilità e competenza!!!).
Si tratta piuttosto del fatto che i docenti, che incarnano il contesto scolastico che è ambiente di vita di ogni studente che viene istruito a scuola (è obbligatorio dare un’istruzione ai figli, non mandarli a scuola!!!) devono comprendere come accompagnare ogni studente a realizzare la propria persona, le proprie potenzialità, quelle in essere e quelle in divenire, secondo le traiettorie della scuola della personalizzazione.
“La scuola realizza appieno la propria funzione pubblica impegnandosi, in questa prospettiva, per il successo scolastico di tutti gli studenti, con una particolare attenzione al sostegno delle varie forme di diversità, di disabilità o di svantaggio. […] In entrambi i casi con la finalità sancita dalla nostra Costituzione di garantire e di promuovere la dignità e l’uguaglianza di tutti gli studenti ‘senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali’ e impegnandosi a rimuovere gli ostacoli di qualsiasi natura che possano impedire ‘il pieno sviluppo della persona umana'”.
Premesse alle Indicazioni Nazionali per il curricolo
Siamo a un punto migliore rispetto a quello a cui, filogeneticamente parlando, eravamo anche solo qualche decennio fa, ma non ancora abbastanza soddisfacente. Tanto che è ancora importante continuare a parlare di inclusione… il che significa che sono all’ordine del giorno fenomeni di esclusione di categorie fragili (nel senso che non è una faccenda questa che riguarda solo l’etichetta “disabilità”).
Per concludere…
Ci vuole ancora tempo affinché la rivoluzione, già iniziata da qualche anno, maturi e possa sfociare in certezze culturali e sociali significativamente differenti.
Ed è proprio per questo che è necessario il contributo di ciascuno di noi: che questa prospettiva che reclama ciò che finché viene nominato significa mancare (inclusione) arrivi a tutti e a ogni categoria di esclusi (perché l’inclusione non è una roba che riguarda solo le persone con disabilità).
Ci vuole ancora del tempo affinché tutte le figure di cura superino l’ approccio alla diagnosi nosografica: sarebbe assai più funzionale e opportuno basare gli interventi di cura del singolo e di presa in carico delle famiglie attraverso un approccio che guardi maggiormente alle funzioni neuropsicologiche individuali, pur certo in riferimento alla macro categoria diagnostica.
Diverso non è inferiore. Ricordatelo. Il tuo Bambino non è solo le sue abilità o inabilità, il tuo Bambino non è il suo deficit corporeo o mentale: ogni essere vivente ha punti di forza e di fragilità. La cosa più importante è saperli osservare: tu conosci quelli del tuo Bambino?
Non lasciare che nessuna etichetta definisca e imprigioni il tuo Bambino o il tuo essere: siamo molto di più delle nostre fatiche, disabilità, fragilità e prestazioni.
Continua a informati e formati perché sono gli strumenti a tua disposizione per cambiare prima di tutto proprio il tuo modo di pensare, i tuoi atteggiamenti, posture, abitudini. Così, quando parli, quando ti rivolgi al tuo Bambino più fragile, ascoltati, osservati e chiediti: ma cosa sto pensando? Cosa sto dicendo? Sto forse parlando del mio Bambino, al mio Bambino, vedendo di lui solo la disabilità? Vedendo di lui solo il cromosoma 21 in più? Sto forse scaricando su quella presenza indesiderata la frustrazione di non sopportare che le cose vadano diversamente? Fai attenzione: sono frasi fatte, abitudini che ci trasmettiamo di generazione in generazione. E’, invece, fondamentale crescere su un pensiero diverso, accorgersi ed essere consapevoli prima di tutto della propria persona.
Spesso, ad esempio, nel tentativo di dare attenzione o nel tentativo di superare un atteggiamento che esclude, o nel voler esprimere il proprio stupore per il fatto che quel Bambino -che vive con un cromosoma 21 in più- sia riuscito a fare delle cose, vengono dette spontaneamente delle frasi che in realtà sottolineano il deficit e il nostro pensare che il Bambino corrisponda al suo deficit, o ancora l’appartenenza di quel Piccolo a una categoria (il disabile): stiamo attenti, evolviamoci! Dove è scritto che un Bambino con disabilità non possa riuscire a fare XYZ? Chi può prescriverlo? Chi può assumersi l’arroganza di dare limiti e privazioni?
L’unica cosa di cui una figura di cura deve pre-occuparsi (leggi questo articolo) è mettere il Bambino nelle condizioni di farcela (approfondisci con questo articolo).
Le disabilità possono avere una base genetica o meno, ma ricordati che Ambiente siamo anche noi, io e te, per i nostri Bambini, figli o studenti, e per le prossime generazioni. E ricorda che per essere ambiente favorevole e favorente non possiamo restare a aspettare che sia il Bambino a adattarsi alle richieste del contesto (non sempre almeno e non come unica direzione di relazione possibile). Dovremmo modificare noi stessi per primi, intesi come ambienti relazionali, sapendo poi come funziona l’apprendimento per poterlo sostenere davvero.
“L’inclusione è un processo ancora in divenire che restituisce libertà democratiche e partecipative a quelle fasce sociali spesso al margine, private di opportunità di sviluppo perché escluse dai contesti caratterizzati da una visione della realtà uniformata e unica che oscura le alterità.
F. Salis
Esplorare e valorizzare l’unicità significa cercare risposte non standardizzate, non omologanti; significa, al contrario, agire con cura, con creatività, assumere una prospettiva divergente per assumere il proprio ruolo di cura in modo propositivo e dinamico a beneficio dei processi di cambiamento della società.
Carissimo Lettore, se hai trovato utile questo articolo, puoi inoltrarlo a chi ritieni possa leggerlo e usarlo a beneficio del proprio Bambino!
“Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo”!
Con passione,
Rachele Nicolucci

Rachele Nicolucci: qualcosa su di me.
Mi occupo di apprendimento, dei processi cognitivi dell’apprendere e di metacognizione, a servizio soprattutto di Genitori e Docenti di un Bimbo che non si basta da solo cognitivamente.
Lo faccio in ottica neuropedagogica, metacognitiva e della pedagogia della mediazione del dott. Feuerstein.
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Se questo articolo ti ha aiutato a vedere qualcosa in più, se ti ha aperto un piccolo spiraglio, allora potresti essere pronta/o per un passo in più.
Perché i bambini sono ciò che li aiutiamo a diventare.
– Prof.ssa Daniela Lucangeli
Con cura,
Rachele Nicolucci
Formatrice, docente, mamma caregiver e sibling
Ideatrice di Sindrome d’Apprendimento
Insieme per un futuro migliore, un giorno alla volta.






