Sostare. Per quanto tempo? Per tutto il tempo necessario

Quinto articolo della Rubrica “Apprendere dai Bambini

Sostare, il verbo che stavolta ci guiderà in questo nostro momento di riflessione condivisa.

Dal latino substare «stare sotto; stare fermo, saldo», ci rimanda ad una condizione di attesa e di fermezza, allo stesso tempo. Potremmo intenderlo anche come “So-stare”, nel nostro caso saper stare nelle situazioni anche se difficoltose.

Nella pratica clinica ho trovato sempre molto utile provare a “so-stare” nella condivisione di un dolore, in un momento di stasi del lavoro terapeutico o nella ricerca di un modo per affrontare una situazione difficile. 

Nel relazionarsi con i bambini  può essere utile avvalersi dello stesso atteggiamento, come ad assumere una posizione mentale che accoglie e aspetta. Infatti, stando accanto ad un bambino sarà inevitabile trovarsi alle prese con delle espressioni molto intense di bisogni, di desideri, per esempio di fronte a uno stimolo la fame per i più piccoli, un “no” detto dal genitore per i più grandi. Tuttavia, è normale e sano che un bambino si scontri anche con alcuni limiti, ed è altrettanto naturale che, in seguito a questo, provi sentimenti di rabbia e frustrazione. Quando si verificano queste situazioni, il nostro istinto è quello di salvaguardarlo, di evitargli questa sofferenza, ma dal momento che questo non sarà sempre possibile possiamo provare ad essere empatici nei confronti del piccolo, sostare con lui nel sentimento di delusione, di rabbia  e, allo stesso tempo, fargli da guida. Al contrario se ci facciamo trascinare a nostra volta nei sentimenti di sconforto o di rabbia amplificheremmo la difficoltà del momento senza offrire delle strategie per fronteggiarlo. 

Dottoressa Guarnera


Sostare

In più di uno dei miei precedenti articoli, vi ho già detto, a modo mio, della necessità di fare a modo dei Bambini, dell’importanza cioè di seguirli e di fidarsi delle loro modalità di crescita.
Samuele, per esempio, ha saputo indicarci la via giusta per lui in più occasioni: quando si parla di metodi di apprendimento (vedi Book EXPERIENCES), quando si è trattato di togliere il pannolino, o della scelta di alcuni specialisti, ecc.

E lo stesso vale anche per Gabriele: perché non è una questione di cromosomi, ma del tipo di relazione che noi vogliamo costruire con il nostro Bambino.

L’articolo di oggi è una buona occasione per condividere un’altra personale riflessione: ovvero la parallela necessità di dare tempo al Bambino, e di rispettare come sacro quel Tempo richiesto da lui e a lui necessario per crescere ed esprimersi nel migliore dei modi per lui possibili.

Non è sempre facile sostare nei tempi del Bambino: nella nostra esperienza il gioco si fa duro quando i tempi del piccolo si discostano dai nostri o quando le sue richieste urtano le nostre aspettative o bisogni.
Ma stiamo imparando che “prima” non è sinonimo di “meglio”.
È sempre meglio, invece, quando il Bambino ha la possibilità di essere consapevole e protagonista attivo della propria esistenza: non importa quanto tempo gli ci vorrà per acquisire dei traguardi lungo lo sviluppo motorio, linguistico o emotivo, per esempio.

So-stare con lui: questo è importante.


Intesa come attitudine nostra non tanto ad attendere passivamente quanto a incoraggiarlo con intelligenza e a sostenerlo nelle modalità a lui più congeniali e per tutto il tempo necessario.
Vi confido che con tenerezza ricordo di me stessa diventata mamma sei anni fa per la prima volta: all’inizio, molto preoccupata dai “tempi” che sarebbero stati necessari. Così cercatovo risposte nella lettura di quelle tabelle che illustrano i tempi di sviluppo di un bambino a sviluppo normotipico. La mia necessità era comprendere quali i tempi evolutivi standard tipici dei “cuccioli d’uomo” e quali le aspettative che potevo avere rispetto allo sviluppo del mio piccolo grande ometto.

Curiosità e preoccupazioni fuorvianti.

Giusto: cioè, bene conoscere le finestre evolute tipiche della nostra specie, e bene anche riconoscere i tempi durante i quali dovrebbe “gemmare” il potenziale di ogni Bambino; giusto se queste informazioni vengono usate realmente a servizio di un intervento opportuno per prevenire fragilità ed elementi di vulnerabilità e a supporto appunto del potenziale di sviluppo. Sempre, trisomia o meno.


Giustissimo intervenire in modo precoce e adeguato quando si sa che una condizione genetica renderà più impegnativo tutto il percorso di formazione e sviluppo del nostro Bambino (anche di questo parliamo durante il prossimo percorso “S.O.S. 21”).

Ma teniamo presente che nessuno di noi, cromosomi o meno, è semplicemente un contenitore da riempire. Siamo tutti molto di più di questa immagine che per decine di anni ha accompagnato anche il fare scuola in Italia; siamo, invece, straordinari “elaboratori”, capaci di rispondere agli input ricevuti dall’ambiente, e questo avviene anche quando c’è un cromosoma 21 in più.
E, dunque, l’adulto di riferimento deve essere capace di sostare nei tempi necessari al bambino per “rielaborare” l’informazione ricevuta, altrimenti rischiamo che quella giovane mente non possa aver compiuto lo sforzo necessario alla rielaborazione, che è vera crescita. E questo vale in ogni ambito, a mio avviso.

Ciò che l’alunno riesce a fare in cooperazione oggi, potrà farlo da solo domani. Pertanto, l’unica buona forma di istruzione è quella che anticipa lo sviluppo e lo conduce; essa non dovrebbe essere indirizzata tanto alle forme mature, quanto a quelle che stanno maturando”.

(Vygotskij, Thought and language, 1962 pag. 104, cit. in Dixon-Krauss nella trad. it. a pag. 34.)

Tra i nostri lettori ci sono tantissimi insegnanti e genitori esperti e attivi, che sicuramente conoscono bene il concetto di zona di sviluppo prossimale, ma lo riprendiamo insieme per tutti gli amici di “Sindrome da Apprendimento”: si tratta di un concetto introdotto per la prima volta da Vygotskij. La zona di sviluppo prossimale  indica una certa area di “differenziale di sviluppo” (citando la prof.ssa Lucangeli), cioè quella in cui si può osservare quale sia il potenziale, quali gli apprendimenti che sono possibili al bambino con la mediazione di un adulto competente, diversamente da quello che il bambino è in grado di fare, invece, completamente in autonomia, da solo (che è zona di sviluppo attuale).

But bad boys bring Heaven to you

“Heaven”

Cosa voglio dire?

Sono davvero infinite le occasioni in cui, possiamo, più o meno consapevolmente, non valutare (o non voler valutare) correttamente se il bambino di cui ci prendiamo cura, o tutto il gruppo classe, abbia acquisito veramente, in modo autonomo e generalizzato, le abilità, informazioni e competenze di cui ci pre-occupiamo. E così si crea confusione in noi tra competenze, abilità, conoscenze che nei nostri bambini / ragazzi sono presenti come potenziale, nella zona di sviluppo prossimale, ma che noi, per fretta, senza troppa onestà intellettuale, o per mancanza di strumenti, trattiamo come se fossero padroneggiate nella zona attuale: chiedendo allora uno sforzo in più, ovvero di proseguire nel percorso di apprendimento anche se non ben consalidati gli apprendimenti precedenti, spesso prerequisiti fondamentali dei passi successivi.

Questo può creare benessere all’interno del gruppo classe? Può creare successo nei bambini che fanno più fatica?

Certo che no!

Cosa succede se continuiamo a voler “correre” per rispettare i nostri programmi o i ritmi degli altri? Non rischiamo di rendere più affaticate e vulnerabili le giovani menti di cui ci occupiamo?
Ho capito, lavorando in classe e crescendo Samuele, che non conviene “bluffare”: bisogna saper stare nei tempi dei propri bambini e ragazzi, stare con loro nella loro zona di sviluppo prossimale, per tutto il tempo a loro necessario perché quell’abilità della mente o quella informazione diventi patrimonio personale, cioè gemmi quel potenziale, divenendo davvero competenza, “area di sviluppo attuale”.

Sorrido perché questo me lo hanno insegnato “i cattivi ragazzi” (riprendo le parole della canzone “Heaven”, a modo mio), cioè quelli che a scuola facevano più fatica… e certo non per loro “colpa” o cattiva volontà.


E così, i miei bambini mi stanno insegnando a sostare quando c’è bisogno che siano loro a recuperare da soli le parole per rispondere a una domanda; sostiamo nel periodo in cui ci poniamo come obiettivo l’insegnamento di un nuovo comportamento o di nuove informazioni; sostiamo nel loro sentire quando emozioni e sentimenti li pervadono al punto da disorientarli.

Io adulto, mediatore, so-stare con te nel periodo che ti è necessario per comprendere; so-stare con te nel tempo necessario per rielaborare a modo tuo l’informazione ricevuta; so-stare con te per pormi come modello e mostrarti come a tua volta puoi saper stare nei tempi tuoi e in quelli degli altri, tuoi prossimi.

Non si può passare sopra. Non si può passare sotto. Oh no! Ci dobbiam passare in mezzo!

“A caccia dell’orso”, di Rosen

Sostare come forma di profondo rispetto necessario.

Per quanto tempo?

Per tutto il tempo necessario.

Rachele Nicolucci
Mi occupo di apprendimento, dei processi cognitivi dell’apprendere e di metacognizione, a servizio soprattutto di chi non si basta da solo cognitivamente.
Lo faccio in ottica neuropedagogica e della pedagogia della mediazione del dott. Feuerstein.

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4 commenti su “Sostare. Per quanto tempo? Per tutto il tempo necessario”

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