Come comportarsi quando si incontra, magari per la prima volta, un bambino con sindrome di Down?

Cosa puoi fare se vuoi conoscere un bambino con sindrome di Down e interagire con lui?

In questo articolo voglio darti dei suggerimenti riguardo a cosa fare e cosa non fare, basandomi sulla mia esperienza diretta e sulla mia continua formazione professionale. Attendo nei commenti di conoscere il tuo punto di vista e la tua esperienza!

Leggi tutto l’articolo. E se hai altri suggerimenti, scrivili nei commenti o contattami: sarò contenta di prendere in considerazione altre esperienze e punti di vista, aggiungendo all’articolo altri spunti interessanti!

Perché mi interessa questo argomento

Se ti è mai capitato di incontrare un bambino con sindrome di Down, diverso da tuo figlio o dal tuo studente… come ti sei comportato? Cosa hai fatto cioè per conoscere il bambino con sindrome di Down? E come ti comporti quando tuo figlio incontra un bambino con sindrome di Down (o con altre condizioni di fatica)?

Siamo una famiglia che ama viaggiare e fare nuove esperienze: in questi 8 anni, infatti, molte persone hanno conosciuto Samuele, il nostro primo bambino che convive con un cromosoma 21 in più (condizione genetica più comunemente conosciuta come sindrome del dottor Down).

Però non tutte queste persone hanno saputo cosa fare di opportuno quando lo hanno incontrato per la prima volta e alcune di loro si sono arrese all’imbarazzo che hanno percepito davanti alla etichetta “down”.

E allora, siccome ci sta molto a cuore contribuire concretamente a costruire una mentalità pragmaticamente più inclusiva, a partire dalle piccole situazioni di vita quotidiana, in questo articolo, basandoci sulla nostra esperienza e formazione, vogliamo darti alcuni suggerimenti riguardo a cosa fare e cosa non fare quando incontri e vuoi conoscere un bambino con sindrome di Down, consapevoli del fatto che i primi approcci e le prime impressioni possono essere davvero importanti, di impatto, possono cioè lasciare un segno, sia in te che nel bambino stesso.

Cosa non fare quando incontri un bambino con sindrome di Down (e non solo)

In questo paragrafo trovi un elenco di atteggiamenti e comportamenti dell’adulto che, secondo noi (per studio, formazione professionale e esperienza), non sono, in genere, funzionali con i bambini. Voglio dire che questi 10 comportamenti dell’adulto non sono mai funzionali rispetto a un bambino, al di là delle caratteristiche individuali e genetiche del minore:

  1. FISSARE: ci sono tanti modi di stabilire un contatto rispettoso; fissare per un tempo prolungato e con una certa intensità, oltre cioè quel che il destinatario del tuo sguardo sostiene con serenità, non è un comportamento che produce dei benefici. Sarà capitato anche a te che, sentendoti fissato da qualcuno, per esempio in bar o semplicemente passeggiando, hai pensato di aver richiamato la sua attenzione per il fatto di avere qualcosa fuori posto o di stravagante… Quando qualcuno ci guarda con ossessione, con insistenza, quando continuiamo a sentirci addosso lo sguardo di qualcun altro, magari di un estraneo o di una persona non del tutto conosciuta, possiamo provare imbarazzo o fastidio. E così pure può capitare a un bambino, anche se molto probabilmente non sarà in grado di verbalizzartelo. Se l’intenzione con cui tu stai mantenendo il tuo sguardo fisso sul bambino è quella di osservarlo per conoscerlo meglio, oppure vuoi soddisfare delle tue curiosità rispetto la sua condizione (o stile) di vita, allora attivati per stabilire un contatto di vera conoscenza con lui: sorridigli, salutalo, vai e parla con lui o con gli adulti che sono con lui. Approfondisci qua: Costruiamo inclusione.
  2. VOLER TOCCARE: un bambino non è un pupazzo, è una persona! Sono ancora tanti gli adulti che pensano di poter toccare un bambino come, invece, non farebbero mai con un adulto o con il prete! Il fatto che altri lo facciano o che altri lo abbiano fatto, per esempio anche nei tuoi confronti, non significa che questo sia un comportamento buono, da ripetere o funzionale alla relazione con quel bambino o al suo benessere. Un bambino, spesso, soprattutto quando fa più fatica con le parole, non è in grado di opporsi all’adulto esprimendo il disagio per quella carezza ricevuta ma non desiderata, per quel tocco sulla testa, per quel “puffetto” sul culetto… Un bambino può anche non gradire e non desiderare un contatto nei termini che a te verrebbe naturale: sii gentile e impara a verbalizzare i tuoi pensieri prima di passare all’azione sul corpo. E per approfondire leggi questi articoli: I bambini possono dire di no agli adulti?; L’amore si fa.
  3. PARLARE DI LUI IN TERZA PERSONA O COME SE NON CI FOSSE: non è una buona idea quella di parlare del bambino davanti a lui ma senza coinvolgerlo in modo attivo; i bambini, anche quando sembrano distratti o impegnati in altro in realtà ci stanno ascoltando e guardando. Qualsiasi sia l’argomento del discorso e l’altro interlocutore. Parlare di lui, delle sue fatiche, delle sue fragilità e potenzialità, del percorso che state vivendo insieme, o dei suoi terapisti, delle sue esperienze o dei suoi atteggiamenti senza coinvolgerlo non è funzionale né crea benessere o senso di autoefficacia nel bambino. Piuttosto puoi scegliere se: a. confrontarti con il tuo interlocutore in un’occasione in cui il bambino non sia presente; b. coinvolgerlo, cioè coinvolgere il bambino: puoi lasciare che racconti lui, che esprima lui il proprio punto di vista e le proprie preferenze e emozioni, puoi rivolgergli qualche domanda, lasciargli tempo e lo spazio per esprimere, per come è capace, il suo punto di vista. Puoi approfondire così: Tu chiamale se vuoi… emozioni; Una metamorfosi possibile: da burattino di legno a bambino vero.
  4. PARLARE DI LUI INCAGLIANDOLO DENTRO LE TUE ETICHETTE E PREGIUDIZI: è difficilissimo costruire inclusione e riuscire a relazionarsi con l’altro al di là delle etichette socio-culturali e dei pregiudizi legati ad alcune condizioni di difficoltà. E’ difficile comprendere che le parole che usiamo, le etichette che appiccichiamo sugli altri e i pregiudizi che abitano la nostra mente raccontano in realtà di noi, più che del valore che l’altro ha in sé stesso. E questo temo che sia vero anche per quei professionisti che lavorano per di più solo a servizio di persone con disabilità… Il rischio che viviamo tutti è quello di far precedere la condizione di difficoltà alla persona stessa, di lasciare cioè che a imprimersi nel nostro sguardo ci sia la disabilità (percepita anche in base all’ambiente di riferimento) più che la straordinaria personalità dell’individuo che abbiamo davanti. Un’attenzione che allora possiamo avere in questo senso è quella verso il nostro linguaggio di adulti: cosa dici di questo bambino? Come parli di lui? Che termini usi per descrivere la sua persona e il suo agire? Cosa osservi? Come te le spieghi certe dinamiche che osservi? Quali strumenti formativi hai e quali esperienze di vita hai per dire dell’altro questo? Approfondisci qua: La forza creatrice delle parole – “Speciale?” Sì, solo per i miei figli; L’errore: un’opportunità per crescere il senso di competenza.
  5. EVITARE DI INCROCIARE IL SUO SGUARDO: ci capita a volte di incrociare lo sguardo di persone che guardano al nostro ometto e che poi, incrociato il nostro sguardo di genitori, sfuggano a quello di Samuele. E’ un peccato: stabilire un contatto oculare sincero e buono potrebbe essere il primo passo per una relazione di conoscenza, di lavoro, di giochi, ecc.. Spesso anche gli specialisti e qualche insegnante teme di agganciare i propri bambini con uno sguardo intenzionale. Il guardare è una cosa potente, che smuove prima di tutto la persona che agisce quello sguardo. Il guardare un bambino e poi fuggire il suo sguardo non è un comportamento di un adulto intenzionale, reciproco e maturo per quella relazione. Teniamone conto quando affidiamo i nostri figli a altri: come è il loro sguardo nei confronti del bambino? E’ uno sguardo attento, lento, capace di sostare, curioso, aperto all’ascolto? Per approfondire puoi leggere questo articolo: Contatto oculare: come potenziarlo, giocando.
  6. PARLARE VELOCEMENTE: se l’obiettivo con cui interagisci con il bambino (senza o con sindrome di Down) è quello di stabilire con lui una relazione affettiva, di gioco, di apprendimento, ecc… allora tieni conto che il tuo parlare velocemente può rendergli davvero complicato il comprendere il tuo messaggio. Certo, buona parte della nostra comunicazione si basa sul linguaggio non verbale, ma mettere un bambino nelle condizioni di poter comprendere un messaggio udito è importante, anche ai fini dello sviluppo di abilità di studio successive. Approfondisci qua: Come far fronte alle difficoltà di linguaggio? La nostra esperienza di Baby Signs: benefici e conquiste; Comprensione e produzione verbale: ecco come stimolarle.
  7. PORRE TANTE DOMANDE: c’è differenza, molta differenza, tra porre domande per il gusto di stimolare la mente del bambino e il porre tante domande per semplice curiosità o per invadenza (quella tipica di certe persone, hai presente?). L’intenzione con cui ci muoviamo nei confronti di un bambino si manifesta anche attraverso il comportamento che assumiamo in quei momenti, così come in quelli precedenti e successivi all’interazione: porre una raffica di domande a un bambino, che magari fa pure fatica a esprimersi verbalmente, immaginando che quello possa essere il canale comunicativo attraverso cui comprendere il suo mondo interiore, conoscere le sue esperienze o scoprire il suo pensiero, potrebbe non essere funzionale. Anzi, direi che non lo è proprio. Diverso è, invece, scegliere di porre domande, lasciando al bambino il tempo e lo spazio per attivare abilità e costruire un pensiero, o quando l’adulto è realmente in grado di mediare (perciò né sostituendosi al bambino, anticipandolo per esempio, né abbandonandolo alla sua fatica). Non è la domanda in sé che crea relazione, ma l’atteggiamento di cura e di empatia con il quale ti porrai in occasione di quella domanda e nell’attesa della sua risposta. Per approfondire: 5 modi per stimolare l’intelligenza; Uno strumento prezioso per avviare la comprensione del testo e le abilità di lettura.
  8. DARE PER SCONTATO CHE LUI NON CAPISCA E CHE NON POSSA AVERE UN PROPRIO PENSIERO: comprensione e produzione verbale coinvolgono meccanismi differenti e così differenti possono essere anche gli sviluppi individuali nelle due dinamiche. E cioè un bambino con sindrome di Down potrebbe avere, in un certo momento osservato, una soglia di comprensione verbale ai limiti inferiori della norma o nella norma, ma vivere comunque realmente le fatiche della produzione verbale. Tieni perciò conto del fatto che potrebbe avere più bisogno di tempo e/o di incoraggiamento per organizzare (sia nella mente che nei movimenti del corpo) una risposta a una tua domanda o, ancor di più, una frase attraverso cui esprimere un proprio parere e richiesta. Il fatto che il tuo bambino abbia bisogno di più tempo per organizzarsi o per svilupparsi non significa che mai parlerà o che non comprenda oggi quel che altri dicono! Ci sono inoltre strumenti che possono facilitare la comunicazione tra voi: noi abbiamo usato con successo il programma Baby Signs finché è stato necessario, ma esistono anche altri strumenti di facilitazione (che noi non usiamo), per esempio la CAA. Sii allora sempre gentile quando ti approcci a lui e non smettere di chiedere il suo parere e di favorire la sua scelta. Se ti stai relazionando per la prima volta a un bimbo con t21 e lui non ti conosce, ricordati che per favorire la relazione con lui devi lasciare tempo, spazio e… essere realisticamente incoraggiante! Ti lascio qua il link al webinar sul Baby Signs, che abbiamo organizzato con la referente nazionale del programma Baby Signs Italia, la logopedista Scuderi e il link diretto agli strumenti in CAA che puoi scaricare gratuitamente dal nostro sito. Approfondisci anche così: Apprendimento: 3 elementi di successo, So-stare. Per quanto tempo? Per tutto il tempo necessario. Ricorda infine che è più facile esporre correttamente un pensiero, una richiesta o un bisogno così come comprendere un messaggio che altri ci danno SE in condizione favorevoli: e cioè in presenza di pochi o nessuno stimolo disturbante e in condizione di contatto oculare.
  9. ALLONTANARE ALTRE PERSONE DA LUI: comprendo che possano esserci adulti che, non avendo esperienza di disabilità o di figli con trisomia 21, potrebbero pensare che, nel dubbio del non saper come comportarsi o nel disagio che vivono loro (il disagio è loro) di fronte alla disabilità o a un bambino che vive una condizione di normalità differente, preferiscano andarsene o, ancora peggio, allontanare i propri bambini da questo tipo di esperienza. L’argomento è spinoso e ampio: permettimi di dire soltanto che la disabilità non è una malattia, le fatiche dell’apprendere non sono una malattia né tanto meno uno stato “infettivo”: avvicinarsi a un bambino con trisomia 21 non è pericoloso né comporta stati di rischio per la tua salute e il tuo benessere! Personalmente non condivido pienamente nemmeno la scuola di pensiero opposta: e cioè non condivido che con (troppa) facilità si dica che tutti abbiamo bisogno di essere a contatto con la disabilità. Voglio dire: è faticoso, soprattutto quando la disabilità è grave. Ricordo che all’età di 18 anni circa, o forse verso i 19 (sì, era l’anno della maturità classica) provai, insieme a una compagna di classe, a inserirmi in una associazione di volontariato per trascorrere qualche ora con ragazzi disabili. Lo sai che cosa ho fatto? Lo sai cosa ho fatto io, che alle spalle avevo già diversi anni di esperienza di volontariato in patronato e sempre io sibling di mio fratello Luca (che all’epoca aveva 13 anni circa)? … Sono s c a p p a t a. Scappata. Non ho resistito, fatta un’ora di prova e stop: troppi input rispetto ai quali mi sentivo triste e impotente. Percepivo (già allora) che non mi piacevano alcune dinamiche presenti e il modo di trattare da disabili quei ragazzi che, pur essendo più grandi di me, erano come dei bambini grandi solo nel corpo. Quando vivi disagio di fronte a una persona con disabilità, quando ti senti in imbarazzo o le gambe vorrebbero solo correre lontano, sii onesto con te stesso: queste emozioni e sentimenti sono tuoi, stanno vivendo dentro di te (e i motivi saranno più che validi) ma non riguardano la persona che fa fatica né parlano del valore della persona che convive con una condizione che determina, rispetto questo ambiente, disabilità. Articoli che possono interessarti: Contenere; Costruiamo inclusione. Sul valore delle parole che usiamo: leggi qua.
  10. ACCETTARE COMPORTAMENTI DEL BAMBINO CHE NON ACCETTERESTI DA UN ALTRO BAMBINO SENZA TRISOMIA 21: troppo facilmente si sostiene o si afferma che il bambino con sindrome di Down sia un “comandino”, un “despota”, un bambino oppositivo. Ok, allora io vi chiedo: cosa avete fatto per allenare la sua flessibilità mentale? Quali atteggiamenti caratterizzano il vostro agire educativo e pedagogico? Quali idee di lui muovono il tuo agire e il tuo comportamento nei suoi confronti? Puoi approfondire con questi due interessanti articoli: Il sovraccarico informazionale e la formazione continua; Educazione gentile e la responsabilità della cura educativa.

Cosa fare quando vuoi conoscere un bambino con sindrome di Down e interagire con lui

Prima di tutto è importante che tu lo voglia davvero! La consapevolezza di questo desiderio e intenzione predisporrà la tua mente e il tuo corpo ad agire in modo più congeniale. Nello specifico posso darti questi suggerimenti, secondo la mia formazione continua e esperienza diretta (qualcosa su di me):

  1. CONCRETAMENTE LASCIA CHE IL BAMBINO AGISCA E INSERISCITI NEL SUO FLUIRE MENTALE: lascia tempo, spazio, non interrompere, non anticipare. Sostieni e incoraggia. Media tra lui e l’ambiente e orienta al Bene.
  2. PROPONI VARIANTI: è importante sapere che per un bambino che vive una reale condizione di fatica cognitiva può essere difficile fare le stesse cose in modo diverso o vivere in modo adeguato delle varianti. Tieni conto perciò del fatto che il conoscere una nuova persona, incontrarla in un nuovo ambiente, recepire richieste nuove o formulate con nuove parole può essere fonte di “stress” o attivare una certa rigidità emotiva e/o cognitiva. In questo caso non preoccuparti, occupati di te e del creare benessere in una situazione di novità, incoraggiando (non forzando!) il bambino a un atteggiamento di sana curiosità e di nuove possibilità,
  3. CHIEDI CON GENTILEZZA, STAI ALLA SUA ALTEZZA: che l’adulto sia in grado di porre richieste, senza pretendere obbedienza passiva è importante per ogni bambino, ancora di più per un bambino con sindrome di Down. Puoi agevolare il vostro (primo) contatto se ti abbassi alla sua altezza, se gli mostri il tuo più bel naturale sorriso, se parli con gentilezza e se ti muovi in modo prevedibile.
  4. ASPETTA CHE TI RISPONDA: il saper attendere è una virtù, esercitati! Non ti sto suggerendo di aspettare in modo passivo o in modo distratto, ma di evitare di anticipare le risposte del bambino, di rispondere tu stesso a una domanda che hai posto o che gli è stata posta, o di pensare di spronarlo con frasi tipiche, tipo: “dai, su!”, “veloce!”, “non fare il timido…”. Piuttosto chiedigli se ha compreso la tua domanda, accertati che abbia percepito correttamente quanto stai richiedendo o quanto sta capitando attorno a lui. Dagli tempo e esercitati nella “pedagogia della lumaca” perché le parole che noi usiamo sono sempre potenti…
  5. ASSICURATI DI AVER CAPITO QUEL CHE DICE: molto probabilmente ti troverai di fronte a un bambino che, per diverse cause, non ha un linguaggio intellegibile, e cioè potresti non comprendere quello che lui dice. Se lo scenario è questo, non temere: prova a riformulare la domanda lentamente, usando parole a alta frequenza, ovvero quelle più comuni, o introducendo dei sinonimi e gestualità; se proprio non ti è chiaro quel che dice puoi anche ammetterlo che non hai capito, che stai facendo fatica (tu, non lui) a comprendere le sue parole. Parti sempre dalla realtà: “Mi dispiace, non sto capendo. Come possiamo fare?”.Potresti avanzare qualche ipotesi e chiedergli anche qualcosa di specifico per individuare la parola che non comprendi. Ad esempio, immaginando che il discorso riguardi l’andare al parco, puoi chiedere: “lo scivolo? Stai dicendo S-C-I-V-O-L-O- ?”. Fai dei tentativi con gentilezza e creatività, senza accusare il bambino, senza giudicarlo e senza sminuire. I bambini hanno molte risorse e insieme potete trovare nuove soluzioni.
  6. USA PAROLE A ALTA FREQUENZA: appunto, prediligi, inizialmente, un lessico comune e chiaro. Scandisci correttamente le parole, evita di storpiarle come nel “bambinese” e usa parole appropriate agli elementi a cui ti riferisci.
  7. USA LA GESTUALITA’: tieni conto che la nostra comunicazione ha un importante valenza non gestuale, che, in genere, è ben compresa dai bambini con sindrome di Down.
  8. RILASSATI E SORRIDI: nella mia esperienza ho incontrato bambini con sindrome di Down che, pur nella fatica dell’espressione verbale, hanno una buona intelligenza emotiva e che dimostrano di essere anche empatici. Tieni conto che se con le tue parole esprimi un messaggio ma poi con gli elementi di te che comunicano non verbalmente esprimi un altro messaggio, ecco che il bambino può percepire questa mancanza di coerenza e rimanere confuso o preoccupato. Impara tu adulto a mandare sullo sfondo la presenza dell’etichetta “sindrome di Down”, impara a guardare alla persona completa, alla sua interezza e unicità: e scoprirai diversi motivi per sorridere di fronte a un piccolo bambino.
  9. EVITA INUTILI COMPLIMENTI: “che bravoooo”, “che carino”, “che bello che è…”, “è proprio buono, vero?” … non sono interazioni funzionali o utili davvero. Anche queste sono frasi esemplificative di tutte le volte in cui quello che diciamo noi adulti apre più uno spaccato sul nostro mondo interiore che non sul valore della persona della quale stiamo parlando. Se vuoi dire al bambino una cosa carina e che lo agganci positivamente a te, soprattutto se lo conosci poco, prova esprimergli la tua gioia per averlo conosciuto, prova a dire che sei contento di avere giocato con lui o che ti piace come ha agito-reagito a un certo stimolo!
  10. SII RECIPROCO: la reciprocità è una delle caratteristiche che il dott. Feuerstein individua nel mediatore adulto. Il mio invito è quello di porti in questo modo nel tuo incontro con un bambino, tanto più se è un bambino che fa fatica. Essere reciproci in ogni incontro, non solo la prima volta o le prime volte… Per reciprocità non si intende che l’adulto debba annullarsi per favorire il bambino, o che tutto debba ruotare attorno alle preferenze e richieste del bambino (vedi punto 2 di questo elenco). Al contrario, essere reciproci significa tenere conto che si è dentro una relazione, fatta di un tu e di un io, che si è in una danza di interazione in cui a ciascuno è richiesto di muovere un passo, secondo le proprie possibilità e in una direzione condivisa. Essere un adulto reciproco, responsabile della qualità dell’interazione, significa perciò saper tenere conto di quanto osservato in quel preciso bambino per calibrare poi le richieste (domande, curiosità, compiti, attività, giochi, esperienze, ecc…) sulle reali competenze e bisogni del piccolo. In sintesi: nel tuo interagire con lui tieni conto di te e di lui, con l’obiettivo di essere di aiuto a entrambi, a te e a lui, a tirare fuori il meglio possibile del proprio sé.

Fammi sapere nei commenti quale punto hai trovato più utile e quale già fa parte del tuo modo di approcciare i bambini tutti, in modo particolare quelli che vivono una certa condizione di reale fatica dell’apprendere!

Rachele Nicolucci
Autrice, fondatrice e coordinatrice di “Sindrome da Apprendimento”

Expert Teacher in organizzazione scolastica – Mi occupo di processi cognitivi dell’apprendere e metacognizione, con un approccio neuropedagogico e della pedagogia della mediazione Feuerstein.

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2 commenti

  1. Mi ritrovo su tutti i punti, su ‘cosa fare’ condivido e mi appartiene il punto 8. Invece essendo una persona che cerca naturalmente il contatto fisico, anche solo una carezza, mi accorgo che mi devo trattenere di più…lo faccio con tutti, a prescindere grandi piccoli, con fatiche o meno!

    1. Ciao Silvia, grazie per il tuo feedback. Io credo che la cosa più importante sia sempre essere consapevoli di quello che stiamo facendo, di avere noi dei bisogni e che li hanno anche gli altri. Magari più che pensare al prodotto finale “mi devo trattenere”, potrebbe essere importante allenarsi a chiedere al bambino “posso darti un bacio?”, “Posso darti un abbraccio?”, “ti va un momento solleticoso?”. Un abbraccio virtuale a te!

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Rachele Nicolucci

Expert Teacher - Mi occupo di processi cognitivi dell'apprendimento e di metacognizione; promuovo la libertà intelletuale di chi vuole essere agevolatori di aiuto per migliorare realmente il modo in cui istruiamo e formiamo i nostri figli.

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